Biennale di Venezia. Horror, zombie e paura
Ed Atkins e Soham Gupta traducono in installazioni e fotografia alcune istanze di oggi. Come la paura e la perdita di speranze, ma anche un inaspettato desiderio di empatia.
Nato a Oxford nel 1982, Ed Atkins sembra l’erede degli “Young Brits” degli Anni Novanta, cattivo come i Chapman Brothers, delirante come Mat Collishaw (di cui vedemmo una sanguinaria “Strage degli innocenti” animata alla Galleria Borghese) e aggressivo come un cane abbandonato. Ed Atkins ha tutti gli elementi per emergere come il peggiore fra i Bad Boys delle ultime generazioni inglesi e, dati i necessari rovesciamenti di valori, come uno dei più interessanti. Al di là di ogni distopia non c’è alcuna redenzione. Piangono gli anziani con rivoltanti eccessi di umore corporeo, piangono i bambini destinati sicuramente a vite senza speranza o a morti orribili. Il modello di queste “Raffigurazioni” è l’affermazione senza speranza di un destino di “No Return” che possiamo vivere solo senza illusioni. Bosch riappare come modello di riferimento, ma anche i surrealisti, Dalí in particolare. Tutto nella certezza che non c’è “way out”. Tanta disperazione può portare anche all’autoironia, come nell’interminabile finale di un breve video in cui minuscoli individui inciampano e cadono, ma la storia continua all’infinito accompagnata dai titoli di coda; 10, 100, 500, mille titoli di coda che instancabilmente accompagnano la caduta e la morte di altrettanti (apparentemente) innocenti anonimi omini. E questo perché naturalmente la vita è soprattutto un titolo di coda. E ci potrebbe anche essere una citazione dal Macbeth, “spegniti spegniti, breve candela…”, se non fosse che i personaggi animati o effettati non avessero una vita da cartoon, da famiglia Addams, oppure grottesco-drammatica come nel nuovo film di Jim Jarmush sugli zombie. Anche la paura è dunque superata, così come le motivazioni positive, e tutto avviene come in una fiaba crudele dei fratelli Cohen.
SOHAM GUPTA E LA MORTE URBANA
Con Atkins abbiamo visto la paura esistenziale filtrata da “narrazioni”, la storia, la letteratura e i tanti linguaggi alti o di massa. Con il fotografo indiano Soham Gupta, classe 1988, invece, non c’è filtro: la “morte urbana” è ciò che avviene nella tremenda periferia di Calikut. Gupta ci racconta con poche e straordinarie immagini le tensioni, le paure, il disperato bisogno di vicinanza umana, la fame di cibo come di affetto di un’umanità abbandonata e sull’orlo della scomparsa psicologica e fisica. Chi sono i personaggi di questa disperata e finale avventura nelle strade di Calikut? Un mendicante cieco stretto in un abbraccio mortale con un compagno di sventura. Una ragazza di strada che mostra, in un bellissimo gesto, il suo scialle nuovo come fossero ali di farfalla. E volti, tanti volti disperati che una strategia linguistica particolare carica di senso e di espressione attraverso la postproduzione di colore sulle foto a colori e altri effetti difficili da capire, ma che portano a un’incredibile tensione dell’immagine. Rappresentare la marginalità, la malattia è pratica corrente fin dalla pittura del Cinquecento, Seicento, nei Paesi fiamminghi come nella Spagna ricchissima dell’oro sudamericano. Quadri che però finivano in case ricche come motivo di divertimento, e in quelle meno ricche come alimento alla misericordia e forse monito alla vicinanza della povertà. La breve ma sconvolgente serie di foto ha però un carattere privo di compiacimento, e, la parola non sembri grossa, pieno d’amore e/o empatia. Siamo lontani dalla freddezza metropolitana della grande fotografa americana Diane Arbus, con i suoi mostri del cemento newyorkese. Ma questa umanità è frutto di una coscienza, quella dell’autore, che prima di fotografarli li ha conosciuti, ha stabilito dei rapporti e infine li ha fotografati nelle posizioni che loro desideravano. Freak metropolitani a cui è stata data una possibilità di riscatto, ma anche segnale dell’immenso territorio della povertà e del bisogno che la nascente (anzi già nata) potenza economica indiana non ha ancora iniziato a intaccare.
UNA SCELTA DISCUTIBILE
La divisione dei lavori di Ed Atkins, come di altri artisti, in vari e diversi padiglioni voluta dal curatore della mostra non sembra convincente. Si sente il bisogno, contrariamente ai processi di de-nazionalizzazione degli anni scorsi, di riformare percorsi riconoscibili che mostrino le caratteristiche nazionali e identitarie degli artisti. I mutamenti linguistici continueranno, ma la lettura di un’opera risulterà comunque più completa se può fornire dati d’identificazione e punti di riferimento. Più completa e più rapida, dato il compito ormai immenso di vedere, se non tutto, almeno una parte del tutto.
La Biennale rischia di bloccarsi come macchina della visione per un eccesso di successo. Ogni edizione porta nuove nazioni partecipanti, cosa bellissima che riafferma l’utopia di nascita della Biennale come luogo dell’Arte Universale, e che crea rapporti culturali sempre nuovi fra nazioni una volta lontanissime fra loro. Ma tutto ciò che è stato possibile fare per infrangere i “muri culturali” e le chiusure nazionali è già stato fatto: smobilitazione dei padiglioni nazionali, scambi relazionali fra nazioni assai diverse tra loro, giochi di squadra per fornire nuove ottiche globalizzate. Il problema che si sente oggi è la dispersione, la difficoltà di aggregare dati di conoscenza indispensabili per una lettura delle opere. Il risultato è l’impossibilità di vedere la mostra in meno di venti giorni, anche avendo fatto delle preselezioni.
C’è bisogno di definire dei metodi, di snellire, di creare percorsi o di razionalizzarli. È possibile?
‒ Lorenzo Taiuti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati