Biennale di Venezia. Back to black
Gli afroamericani Kahlil Joseph e Arthur Jafa portano alla Biennale di Venezia una riflessione sulla blackness. Declinandola in linguaggi e stili differenti ma ugualmente di impatto.
“Black Lives Matter” è uno degli slogan più efficaci con cui è stato caratterizzato il terribile ritorno alla discriminazione e alla violenza sugli afroamericani. Che sia stata un’esplosione di breve durata è la speranza, ma lo stop nel processo di integrazione è duramente indicato e contestato dalla comunità afroamericana.
Due artisti afroamericani sono presenti alla Biennale, assai diversi l’uno dall’altro per provenienza sociale e approccio ai mezzi espressivi. Kahlil Joseph è di origine borghese e colta, studi importanti e una predilezione per l’immagine video, oltre che per la cultura pop e i media. Alle esperienze di videoclip per note figure della canzone (Beyoncé e altri) si accompagnano cortometraggi, video di ricerca, sempre ispirati alla qualità stilizzata ed elegante dei videoclip e dei linguaggi pubblicitari. In questo lavoro, in equilibrio fra sperimentazione e adesione ai linguaggi comunicativi, s’inseriscono opere più legate alle problematiche sociali. Come BLKNWS, che mostra un flusso ininterrotto di sequenze di notizie prese dalle fonti più diverse e i cui protagonisti sono sempre i neri americani. Sul fondale di due gigantografie d’immagini emblematiche di soldati neri durante la Prima Guerra Mondiale e di monache, passa su uno split-screen la comunità nera partecipante a tutte le attività, dallo sport alla politica, dall’arte all’economia. Le sequenze scelte come cut up dalle reti sono montate secondo la prassi del cinema sperimentale, per brevi e incalzanti pezzi in movimento. Appaiono scritte come Deconstructing european philosophies, Stepping into tomorrow, il senso non è solo polemico quanto dimostrativo-informativo. Quello che viene mostrato (e dimostrato) è la complessità culturale della presenza afroamericana in tutte le manifestazioni vive della cultura della nazione.
ARTHUR JAFA
Arthur Jafa (che ha vinto il Leone d’Oro) rappresenta un’altra parte dell’uso di materiale mediatico e di rapporti con la storia. Jafa ha una vicenda diversa e rappresenta una parte differente della popolazione nera, cresciuto in situazioni di svantaggio e tensione sociale che descrive con montaggi fotografici o video di violenta critica sociale e antagonismo come Love Is The Message, The Message Is Death. Ricorrente nella mostra l’immagine di gigantesche ruote da camion nere, Big Wheel, ricoperte di catene. Echi minacciosi di violenza e prigionia insieme al lavoro manuale da sempre imposto alla comunità nera e il ricordo delle industrie automobilistiche in cui lavoravano grandi quantità di operai neri. Segni del suo passato nel sud in cui è nato e di una coscienza sociale che non accetta compromessi. Il suo lavoro (più radicalmente di Kahlil Joseph) mette a confronto gli universi mediatici in cui appaiono bianchi e neri come entità separate in cui non si è operata alcuna fusione. Tornando alle posizioni radicali di Amini Baraka e di Malcolm X, e più in generale della sinistra nera degli Anni Sessanta, che sceglieva la separazione totale, l’ottica afroamericana come unica lettura possibile del mondo. Il video White Album, con materiali di ogni tipo, web, tv, foto, video, volutamente spurio e “anti-estetico”, mostra i due universi opposti, bianco e nero, dagli scontri nelle città al massacro del suprematista bianco Dylann Roof. Fra immagini di mitra e scontri di piazza, ancora una volta vediamo come sotto la superficie nulla sembra cambiare.
‒ Lorenzo Taiuti
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