Dal gender a Black Lives Matter: il “Corpo Accademico” in mostra all’American Academy in Rome
Si chiama The Academic Body la mostra che ha inaugurato il 22 maggio all’American Academy in Rome e che vede per la prima volta, insieme al direttore artistico Peter Benson Miller, il presidente dell’istituzione Mark Robbins in veste di curatore. Abbiamo intervistato entrambi
Il titolo di questa mostra è The Academic Body. Che cosa significa?
Il titolo ha un duplice significato. Si riferisce in primo luogo alla dimensione accademica dell’arte, quindi a quelle regole e convenzioni derivanti dalla scultura classica che hanno dominato la formazione artistica dal XVII secolo fino all’emergere dei movimenti delle avanguardie nell’epoca moderna. Rimanda però anche al nome della nostra istituzione, che è stata fondata alla fine del XIX secolo proprio per portare gli artisti e architetti americani a contatto con i modelli classici e i principi accademici.
Come si connette la riflessione sul corpo con la storia dell’AAR?
Ripercorrendo le trasformazioni del corpo nel lavoro degli artisti americani dal 1894, anno di fondazione dell’Accademia, a oggi, la mostra riflette criticamente sulla stessa storia e sugli approcci culturali di questa istituzione nel suo 125 anniversario, attraversando al tempo stesso cambiamenti fondamentali avvenuti nell’arte e nella società americana. In questo arco temporale, l’Accademia si è trasformata dall’essere un baluardo del neoclassicismo, nel quale gli artisti erano incoraggiati a copiare le sculture classiche come il Doriforo di Policeto, a un’istituzione più liberale, capace di promuovere diversi approcci artistici.
Cosa è successo poi?
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Accademia ha ceduto la sua collezione di calchi in gesso di sculture antiche, in un momento in cui il classicismo era al suo punto più basso. Artisti come Philip Guston, Stephen Greene e Concetta Scaravaglione, la prima donna a vincere il Rome Prize nelle arti visive, si sono posti il problema di come poter rappresentare il corpo dopo l’Olocausto e Hiroshima. Recentemente, tuttavia, gli artisti americani hanno riscoperto il potenziale dei corpi classici.The Academic Body esplora questa nuova attualità del corpo classico, inteso non come una forma canonica, standardizzata, ma come fulcro delle riflessioni contemporanee su identità, genere, sessualità e razza. Se il corpo era una volta un simbolo di conservatore, recentemente sta emergendo come emblema di un pensiero più radicale rispetto a un’ampia gamma di questioni contemporanee.
Anche gli artisti selezionati sono intimamente legati all’istituzione. Come li avete scelti?
Ci siamo prefissi di offrire una selezione abbastanza ampia in termini cronologici e dei vari approcci con cui il corpo viene usato e rappresentato. La maggior parte degli artisti sono stati borsisti o ospiti in residenza all’American Academy, o comunque artisti molto legati all’istituzione. Le opere in mostra spaziano dalle maquettes del noto scultore Daniel Chester French (l’autore del monumento di Abraham Lincoln al Mall di Washington, DC), i cui corpi esposti in mostra richiamano le cariatidi dell’Eretteo sull’Acropoli di Atene, a un collage di Wangechi Mutu, che attinge alla pornografia, ai manuali scientifici e alle riviste di moda per mettere in discussione gli stereotipi dominanti sul corpo femminile nero, e una particolare attenzione è dedicata ad alcuni artisti riconosciuti della metà del secolo scorso come Stephen Greene. Volevamo anche includere un’ampia gamma di media, come pittura, scultura, video, fotografia, installazione e performance. La selezione comprende anche lavori di due ex borsisti italiani all’Accademia, Sissi e Giuseppe Stampone. Alcune opere, quelle di Tom Johnson, basata su un testo della drammaturga Adrienne Kennedy, di Jessie Marino, Giuseppe Stampone e David Schutter, sono state concepite espressamente per la mostra.
Il tema del corpo è di fondamentale rilevanza nell’ambito del dibattito culturale internazionale…
Originariamente la mostra era stata concepita come un’analisi della produzione artistica legata alla politica dell’identità e alla teoria queer negli anni ’80, in cui il corpo appariva in maniera molto evidente. Nella sua attuale evoluzione il percorso espositivo ha ampliato il suo raggio di indagine, partendo dal neoclassicismo fino alla più recente arte concettuale. Questo arco temporale ci offre tutta la gamma delle possibili associazioni legate al corpo, dalla replica più conservativa del canone classico fino agli approcci più diversi e sperimentali, attraverso una grande varietà di media.
Quali sono le differenze nell’affrontare questo tema tra gli Stati Uniti e l’Italia, a vostro parere?
Ci sono state di recente diverse mostre negli Stati Uniti che hanno riconsiderato il corpo. Segnano un importante spartiacque. La nostra sensazione è che molti artisti in Italia siano ancora restii ad affrontare la tradizione figurativa. Forse questo è dovuto alla schiacciante influenza dell’Arte Povera o alla persistente associazione della figurazione con il totalitarismo. Ci sono delle eccezioni, naturalmente, come nel caso Carol Rama, protagonista, nel catalogo che accompagna la mostra, di un testo inedito di Leslie Cozzi, borsista nel 2018. Anche di Sissi e Giuseppe Stampone che rappresentano il corpo in modo interessante e innovativo. Gli artisti americani, d’altra parte, almeno quelli che sono stati all’Accademia negli ultimi due decenni, affrontano il corpo e la tradizione classica meno vincolati al peso della storia. Uno degli aspetti più interessanti dell’Academy è proprio il fatto che fornisce agli artisti di queste due tradizioni un territorio neutrale per scambiare idee.
Si tratta anche di un tema molto politico: la mostra che inaugura il 22 maggio all’AAR come si confronterà, se lo farà, con questo aspetto?
La mostra non si sottrae dall’affrontare questioni politiche o sociali della nostra attualità. L’artista Patricia Cronin, che è stata borsista nel 2007, ha riconfigurato i corpi classici per realizzare un’audace dichiarazione sul matrimonio gay nel suo Memorial to a Marriage. Cronin ha creato questa opera, che rappresenta l’artista che abbraccia la sua compagna, l’artista Deborah Kass, un decennio prima che la Corte Suprema degli Stati Uniti legalizzasse il matrimonio omosessuale. Sanford Biggers, borsista nel 2018, riecheggiando la campagna del movimento Black Lives Matter, commemora le vittime afroamericane della brutalità della polizia negli Stati Uniti. Il lavoro di Sissi richiama l’attenzione, tra le altre cose, sulla tragica condizione di molti migranti africani che tentano di attraversare il Mediterraneo.
Quali sono i testi e le opere che maggiormente vi hanno ispirato nella vostra ricerca?
Gli studi pionieristici di Judith Butler e Eve Kosofsky Sedgwick, e quelli di altri importanti fondatori della cosiddetta teoria queer negli anni ’90, hanno avuto un’influenza importante sul nostro lavoro, così come il testo “Flesh and the Ideal: Winckelmann and the Origins of Art History “(2000) di Alex Potts. Mary Beard, che ha contribuito con un saggio al catalogo, ci ha aiutato a capire la natura tagliente e radicale della scultura classica che abbiamo dato per scontato per troppo tempo come solo convenzionalmente bella. In realtà, come dimostra Beard, l’arte “classica” quando è nata era scioccante, controversa e complicata. Deborah Willis, un’altra autrice del catalogo, ha riformulato, attraverso testi pionieristici e la fotografia, la narrazione visiva della costruzione della propria immagine e della formazione dell’identità, in particolare, ma non solo, nei confronti degli afroamericani. Il suo lavoro offre un orientamento efficace per tutti gli studiosi e curatori interessati al ruolo del corpo nell’arte e nella società contemporanea.
–Santa Nastro
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