Il senso di Longhi per Morandi. Riflessioni a margine di un testo (e di una mostra)

Una mostra a Firenze è occasione per rileggere il senso della pittura morandiana, con tutta la sua fascinazione poetica. Un unicum nel panorama del secolo scorso, come seppe dire con maestria Roberto Longhi, altro protagonista dell’esposizione al Museo Novecento. Ma la lezione di Morandi ha ancora un ruolo e un peso nell’attuale scena dell’arte?

Una nemesi capricciosa, ma non priva di significato”. Così Roberto Longhi volle definire la curiosa coincidenza verificatasi tra la pagine di cronaca di due città italiane. Era il 18 giugno del 1964. A Venezia si aprivano le porte della Biennale e il corso della storia dell’arte cambiava, sull’onda di ricerche radicali, nuovi sistemi di mercato e di potere, nuovi equilibri ed energie febbrili, bilanciati da altrettanti malcontenti, polemiche, diffidenze: trionfo clamoroso della Pop Art, con il 39enne Robert Rauschenberg a ritirare il Premio Internazionale di Pittura, primo artista americano giunto su quel podio. Suoi erano anche i costumi e le scene di “Antic Meet”, spettacolo del coreografo statunitense Merce Cunningham, con musiche di John Cage, presentato quella sera sul palco del Teatro La Fenice. Le opere di Rauschenberg, insieme a quelle dei connazionali Jasper Johns, Claes Oldenburg e Jim Dine, rubavano la scena a italiani ed europei, divenendo il caso eccellente della 23esima Esposizione Internazionale d’Arte.
Nelle stesse ore, al centro di Bologna, in un appartamento di via Fondazza, si spegneva uno tra i più autorevoli artisti del Novecento: Giorgio Morandi aveva 74 anni e ancora una lunga serie di nature morte e di paesaggi da cercare sulla tela, facendone avventura filosofica, ossessione lirica, spinta universale e quotidiana orazione laica.
A rapire lo sguardo di Longhi, vinto da profondo “sbigottimento” dinanzi alla scomparsa dell’artista, fu proprio l’enorme distanza tra il silenzio di quell’interno domestico, luogo di vita, di morte, di poesia, di meditazione e altissima pittura, e il fragore di un exploit annunciato sul più mondano palcoscenico del sistema. Qualcuno moriva, qualcun altro scriveva pagine nuove, mentre il mondo intorno cambiava volto, frequenze, direzione.

Giorgio Morandi e Roberto Longhi

Giorgio Morandi e Roberto Longhi

IL SENSO DI UNA MOSTRA

Longhi scrisse per Morandi una meravigliosa pagina di commiato. La scrisse a mano, su dei fogli di cartoncino, e la intitolò Exit Morandi. Morire, passare al di là, uscire da un secolo e dalle sue narrazioni grandiose, dai suoi nodi irrisolti e dai racconti fallaci. Entrando nella storia, davvero. E non fu, quel breve e intelligentissimo testo, un semplice spazio di addio e di tributo. Fu la scrittura consapevole, piena di severa disperazione, attraverso cui il critico tracciò i contorni di una scena dell’arte – quella dei cinquant’anni appena trascorsi ‒ da ripensare nel distacco sereno di domani; una scena in cui la lezione di Morandi brillava quale gemma irregolare, collocandosi oltre il proprio tempo, oltre le tendenze e gli show, oltre l’equivoco di chi leggeva nella sua figurazione una strada comoda, intimista, ripetitiva.
La mostra al Museo Novecento di Firenze, curata dal direttore Sergio Risaliti e da Cristina Bandera, direttrice della Fondazione Roberto Longhi, ha il merito di aver ripreso quel documento e averne fatto l’origine di un progetto misurato, fuor di pretesto: il manoscritto originale è esposto sotto teca a fine percorso, quale perno e sigillo dell’architettura espositiva. Una versione limata ed ampliata sarebbe stata letta dallo stesso Longhi dinanzi a una telecamera, il 28 giugno del ’64, per la trasmissione televisiva “L’approdo”. Anche quel video viene mostrato in chiusura, con tutta l’eleganza dell’eloquio longhiano a risuonare nella piccola film room.
Exit Morandi mette dunque insieme una selezione di opere del maestro bolognese, con prestiti che arrivano dalla Galleria Nazionale di Roma, dall’Archivio Longhi, dal Monte dei Paschi di Siena e da alcune collezioni private di rilievo; ma, come subito rivela il titolo-citazione, è alla figura del grande critico e storico piemontese che offre un ruolo speciale, al fianco dell’artista, favorendo un’illuminante prospettiva.

Giorgio Morandi, Natura Morta, olio su tela, 1954. Courtesy Fondazione Studi Storia dell'Arte Roberto Longhi, Firenze. Photo HM

Giorgio Morandi, Natura Morta, olio su tela, 1954. Courtesy Fondazione Studi Storia dell’Arte Roberto Longhi, Firenze. Photo HM

LE OPERE E I MAESTRI. OGGETTI COME POLVERE

E a proposito di equivoci sulla pittura morandiana e le sue rassicuranti ripetizioni, Longhi parla fuori dai denti. E avverte coloro che avevano intravisto una “certa immobile comodità della posizione di Morandi dinanzi ai suoi semplici ‘oggetti’ disposti, scalati, variati, permutati in polvere”. Tutt’altro che comode, quelle tele. Tutt’altro che sicura la via dell’affettuosa elencazione, della fragilità ribaltata in presenza, del banale che schiude l’autentico, della tavolozza leggera esplorata fino a perderci gli occhi, sapendo che è nella gamma inesauribile delle declinazioni che la complessità del mondo viene, si incarna, si tramuta in luce.
Bottiglie, vasi, barattoli, scatole, case, colline, file di cipressi. Ed ecco la liturgia dei sabbia, dei rosa polvere e degli azzurri cenere, dei bianchi lattiginosi e dei tiepidi gialli, delle tinte verdi oppure terrose, come i prati e le foglie d’estate a Grizzana; ecco la sfida lanciata alle cose minute e alle forme ideali: la corrispondenza tra queste e quelle ha la logica di un immenso catalogo di composizioni concrete, astratte, sensuali, messe in ordine fra un tavolo e uno scaffale, per giungere ‒ prima o poi ‒ a un qualche indizio di verità.
In mostra una trentina di opere, dipinte in gran parte tra gli Anni Trenta e i Cinquanta: ci sono i paesaggi agresti, costruiti da porzioni oblique d’ombra e di tepore; poi le mitiche bottiglie, sintesi di dolcezza timbrica, rarefazione metafisica e rigorosa articolazione spaziale; c’è un finissimo bouquet (Fiori, 1943), composizione pastosa di versi in pittura, e c’è infine una serie di piccole, ricercate incisioni.

Giorgio Morandi, Paesaggio, 1943, olio su tela. Courtesy Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena, ph. Lensini, Siena

Giorgio Morandi, Paesaggio, 1943, olio su tela. Courtesy Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena, ph. Lensini, Siena

DA PIERO DELLA FRANCESCA A CÉZANNE

L’unicità della cifra morandiana e delle molte influenze storiche emerge già in questo corpus breve: dalla scansione scenica di Piero della Francesca, intrisa di luce aulica, alla quasi astrazione di Cézanne, con le sue partizioni geometriche distese tra il piano degli oggetti e quello delle idee, passando per le delicate costruzioni cromatiche di Monet o di Seurat. Morandi trasformò tutto questo in una scrittura personalissima, destinata a diventare un capitolo autonomo della storia dell’arte del Novecento, rifuggendo appartenenze a gruppi, scuole, stili, movimenti.
Tra i capolavori esposti non poteva mancare Natura morta (di oggetti in viola) del 1937, che proprio Longhi amò, per la forte impronta pierfrancescana che seppe riconoscervi, e che ricevette in dono dall’artista. Respiro ampio e spinta ascensionale, per una tela che stacca dal fondo chiaro un incastro irregolare di forme pure, pulviscolari, risolte con stesure di bianco, blu, grigio. La grazia di poche cose comuni, in cui trovare un cenno d’infinito.
Stessa evanescenza nella Natura morta del ‘54, scandita dai bianchi, i beige e i crema: tre forme cubiche e una bottiglia sono accostate al centro del ripiano, in quell’ipotesi di monumentalità cézanniana scaturita dalla coscienza della caducità, dell’impermanenza e insieme della corrispondenza tra oggetti qualunque e strutture universali. Notevoli le due vedute del ’43 e del ’41: i piani essenziali e i tocchi veloci, i verdi e i rosa chiari, mostrano la maniera tutta morandiana in cui l’immagine viene mentre inizia a svanire. Apparizioni in assenza d’orizzonte o sotto un cielo opaco.

Exit Morandi. Exhibition view at Museo Novecento, Firenze 2019

Exit Morandi. Exhibition view at Museo Novecento, Firenze 2019

LE LEZIONE DI LONGHI E MORANDI, 50 ANNI DOPO

Impossibile capire Morandi, scriveva Longhi, “senza intendere che in quella sua lunga, instancabile, solenne ‘elegia luminosa’ egli andò conducendo una così poetica ricognizione del mondo di natura da non trovar pari nel cinquantennio che gli toccò attraversare con la sua ombra densa di alto, austero viandante la cui ‘vox clamantis’ raggiungeva anche le plaghe più desertiche dell’arte che gli fu contemporanea”. C’è tutto in queste righe, in cui l’autore assegna al maestro una capacità poetica singolare, nella cornice di quel mezzo secolo movimentato e forse non così memorabile: la “solenne elegia luminosa”, contrapposta ai “prodotti pop” accolti a Venezia, risuonava nel deserto coevo e insieme altrove, ovunque e domani. Morandi era già storia, prima di diventarlo.
Cinquant’anni dopo quella luce ancora irradia e spezza il rumore di fondo, nell’incerto zigzagare di un tempo e di un “mondo dell’arte“, il cui incipit – secondo Mario Perniola (“Arte espansa”, 2015) – si colloca “alla fine degli anni cinquanta del Novecento”, nel segno delle avanguardie storiche e dell’imprinting duchampiano; un mondo che vede oggi “finalmente esplosa” la sua “bolla speculativa”, tra artisti come divi, opere come pretesti, feticci o marchi commerciali, processi storico-critici sostituiti da operazioni pubblicitarie. E proprio nell’avvento della Pop Art americana Perniola vede uno dei presupposti di tale assetto ‒ “l’idea che l’arte possa essere fatta da tutti” ‒ a cui si somma un’altra premessa chiave: “la rottura con l’estetica filosofica, col sapere erudito e con la cultura critica”. Le contraddizioni generate da quella new wave sono per il filosofo giunte alla loro evidenza massima, col conseguente crollo del sistema. Tra insidie e opportunità, il tentativo è ora di trarne un discorso coerente, incisivo. Una dimensione estetica nuova.

Lo studio bolognese fotografato da Paolo Monti nel 1981. Fondo Paolo Monti, BEIC

Lo studio bolognese fotografato da Paolo Monti nel 1981. Fondo Paolo Monti, BEIC

L’ECO DI UNA VOCE SOLITARIA

La mostra fiorentina ha allora il suo perché non solo nella bellezza di una manciata di dipinti, ma anche nella domanda di fondo ancora attualizzabile, ripartendo dal dialogo tra due giganti. Cosa fare di quell’eco, di quella voce autorevole e solitaria? “La statura di Morandi”, aggiungeva Longhi, “potrà e dovrà crescere ancora, dopo che quell’ultimo cinquantennio sarà stato equamente ridimensionato, ridotto ai suoi limiti e, dove occorra, persino estromesso dal concerto di una storia che possa dirsi civile e cioè in grado di intendere ciò che di umano sempre si esprime nell’atto dell’artista”. E quella lezione in effetti ha seminato, ha messo radici, si è ritagliata un posto d’onore nella storia della grande pittura europea. Generando riflessioni ed eredità silenziose, in certi casi di autentico valore.
Una boccata d’ossigeno che non si esaurisce. La chiave è nascosta di nuovo in quelle righe: ciò che di “umano” torna, tra il discorso artistico ed estetico, ma anche culturale, politico, tecnologico, a mischiare la carte e le gerarchie. In fondo all’umano e oltre l’umano, intorno e attraverso. Ripartire da una fila muta di bottiglie, apparecchiate come una preghiera, una sequenza logica, un’architettura filosofica o matematica, un verso di poesia civile. Scommessa sufficientemente audace. Nel cuore del contemporaneo e al di là.

– Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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