Gli artisti e la ceramica. Intervista a Claudia Losi
La ceramica come materiale d’elezione per lo sviluppo del proprio linguaggio artistico. È attorno a questo nucleo tematico che prende forma la riflessione di Claudia Losi.
Claudia Losi (Piacenza, 1971) non è nuova alle collaborazioni con diverse competenze artigiane per dare vita a potenti e immaginifiche installazioni, come nel caso del suo pluriennale progetto Balena Project. Recentemente si è confrontata con la ceramica presso diversi spazi a Montelupo dando vita a nuove, potenti sculture. L’abbiamo incontrata per capire come è nato questo progetto e come vede il suo prossimo futuro, anche sul fronte della ceramica.
Nella tua ricerca hai spesso scelto di lavorare con altre mani, altre competenze – penso alle tue collaborazioni nel campo tessile. Come è stato per te, quindi, l’incontro con gli artigiani di Montelupo? C’è una specificità nella collaborazione che la ceramica mette in moto rispetto ad altri linguaggi che hai adottato?
Integrare nel mio lavoro competenze altrui, innervare il processo che porta alla realizzazione finale (un oggetto fisico, un testo o una performance) con il saper fare ‒ e pensare ‒ di altri è una modalità che adotto spesso. La motivazione, credo principale, è una forte curiosità per ciò che non conosco e il desiderio di vedere cosa accade partendo dal mio “innesco”: da una proposta iniziale di cui non so la fattibilità, le difficolta processuali e attraverso la sapienza artigianale e la capacità di mettersi in gioco delle aziende coinvolte. In questo caso specifico si è arrivati a un risultato che si è rivelato, sia per me che per loro, una sorpresa.
Direi che la specificità è quella di avere messo il naso in un mondo, quello della ceramica, che ha un linguaggio con sue regole precise, come standard musicali. Gli artigiani con cui ho lavorato, diversi tra loro nell’approccio “filosofico” alla materia e alla sua trasformazione, hanno improvvisato con me su qualcosa che già conoscevano.
Nella mostra ceramica che hai presentato la parte naturale, le grandi ossa di animale, sembrano cedere il passo a una grande presenza antropomorfa (penso agli stracci, ai vasi). Come è arrivata questa decisione? È stata dettata dalla materia?
Una capanna, un inizio di riparo costruito con tre “costole” in terra dell’Impruneta, sbiancate, ma ancora rosacee, di 190 cm l’una. Costole di un animale marino, un cetaceo di medie dimensioni. E ancora devono essere finite le mascelle, da erigere ad arco, come colonne di un tempio d’aria, alte circa 3,5 metri l’una.
Avevo in mente da tempo di realizzare, in ceramica, questi ossi. I riferimenti sono tanti ma in particolare le costole e le mascelle fossili appese alle facciate di alcuni edifici non lontano da Montelupo (per esempio a Lastra Signa, località La Lisca), e alla pratica costruttiva che per centinaia e centinaia d’anni ha caratterizzato la costruzione di ripari e luoghi sacri nel grande nord, dove di legno ce ne era ben poco. Queste strutture di calcio diventano materiale costruttivo di uno straordinario portato simbolico. L’idea di cosa provare a fare c’era già, fin dall’inizio. Ma la prossimità, non solo metaforica, dell’argilla col vivente (o meglio con gli elementi del vivente) e la sua struttura base, mi hanno colpito per la sua evidenza. E la possibilità di vedere crescere queste forme, modellate con abilità dal ceramista e poi riprese personalmente, è stata davvero un dono.
La ceramica ha spesso tempi lunghi, impone pause. Che effetto ha avuto questa metodologia operativa sul lavoro?
Devi riprendere contatto con tempi lunghi d’attesa. L’espressione dare tempo al tempo, in qualche modo l’ho ritrovata, materialmente, nel lavoro coi ceramisti. E anche quella zona di labile, di rischio in cui non puoi avere un controllo totale. L’esperienza è fondamentale, ma anche la capacità di accettare l’imponderabile della materia, dell’acqua, dell’aria, della temperatura e della loro coazione… Un aspetto vitale, biologico, direi, che mi è molto piaciuto. La zona rischio in cui puoi volere stare e in cui, comunque, devi transitare.
Andare a Montelupo, con scadenza regolare, apportare modifiche, aggiungere e trasformare e poi aspettare nuovamente che l’osso crescesse, che il vaso asciugasse prima di poterlo colorare, sono stati appuntamenti a cui mi è piaciuto presentarmi. Da cui ho imparato un’altra forma dell’attesa.
Nei lavori con le stoffe era il colore del supporto a suggerire la parte cromatica dell’opera finale. Nel caso della terra sembra che tu abbia deciso di procedere un po’ nello stesso modo, utilizzando le diverse cromie dei materiali di supporto anziché imporre colore. Pensi che la tua ricerca continuerà su questa strada o vorresti allargare la ricerca all’uso degli smalti?
Il risultato ottenuto, in particolare con le grandi ossa, è stato ‒ devo ammettere ‒ inaspettato. Fa parte di quel labile di cui accennavo prima. La sorpresa di vedere uscire dal forno le “costole” non bianche ma leggermente rosate è stata inizialmente spiazzante. Ma alla fine hanno assunto un elemento, diciamo, carnale, che non mi aspettavo affatto e che ho deciso di mantenere. Abbiamo aggiunto piombo e rame, graffiato e levigato la superficie non sapendo fino in fondo cosa sarebbe accaduto. Mi piacerebbe conoscere un po’ di più gli smalti. E già coi vasi “svenuti” abbiamo provato una prima direzione cromatica. E vorrei continuare in questo solco. C’è un mondo da scoprire.
Quando ti sei avvicinata alla terra avevi delle aspettative, dei modelli? Quali sono le differenze tra l’idea iniziale che avevi entrata in laboratorio e il risultato finito?
Non avevo alcun modello o riferimento preciso. Solo totale apertura e anche un po’ di timore, devo dire. Un’attitudine di ascolto e attenzione. E ho trovato chi mi ha ascoltato pazientemente. Rispetto all’idea iniziale? Avevo una direzione in testa ma il risultato è andato, devo ammettere, oltre le mie aspettative. Come ti dicevo, mi piace essere sorpresa dal lavoro, dal risultato finale!
‒ Irene Biolchini
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