Tutto sulla grande mostra di Alberto Burri a Venezia
La Fondazione Giorgio Cini celebra il ritorno a Venezia di Alberto Burri. E lo fa con una mostra di ampio respiro. Che riesce a ripercorrerne la carriera. Interviste a tutti i protagonisti della kermesse.
Caposaldo della stagione informale e rivoluzionario interprete della materia pittorica, Alberto Burri (Città di Castello, 1915 ‒ Nizza, 1995) ha lasciato un profondo segno del suo passaggio nel solco del Novecento, diventando un modello per le generazioni successive. La mostra veneziana, a cura di Bruno Corà, In collaborazione con Tornabuoni Art e Paola Sapone MCIA, ne ricostruisce il percorso attraverso una cinquantina di opere, in prestito dalla Fondazione Burri e da numerosi musei e collezioni italiani ed esteri.
INTERVISTA A BRUNO CORÀ
Quali sono le linee guida della mostra e quali i suoi intenti?
Ho voluto dare a questa mostra il titolo Burri: la pittura, irriducibile presenza, ricavandolo da una dichiarazione espressa da lui stesso in occasione della sua partecipazione alla mostra The New Decade – 22 European Painters and Sculptors presso il MoMA di New York nel 1956, poiché la sua affermazione chiarisce uno dei nodi fondamentali della sua arte; essa si qualifica quale linguaggio che abbandona la rappresentazione per “presentare” il vero e reale della materia.
In base a quali criteri avete selezionato le opere?
Insieme con Chiara Sarteanesi, collega della Fondazione Burri, abbiamo selezionato le opere con l’obiettivo di fornire il percorso completo della sua pittura astratta a partire dall’immediato dopoguerra, 1948-49, fino alla fine della sua attività avvenuta nel 1994, un anno prima della sua scomparsa. Entro tale percorso abbiamo compiuto ulteriori scelte in base alla pregnanza storica, linguistica e di forza estetica. A partire dai Catrami e le Muffe (1949), attraverso i Sacchi (1949-50), i Gobbi (1950), le Combustioni (1953), i Legni (1955), i Ferri (1958), le Plastiche (1956-63), i Cretti (1973), i Cellotex (1974) e le serie di Neri e Oro conclusiva dell’intensa attività dell’artista.
L’arte di Burri torna a Venezia dopo la storica monografica del 1983 alla Giudecca. Che significato ha questo ritorno e quali aspetti della poetica di Burri mette in luce?
Quando Burri espose l’importante ciclo di pittura del Sestante (1983), composto da sedici dipinti policromi acrilici su cellotex e una grande scultura in ferro dipinta di rosso, correvano gli Anni Ottanta e la sua era una risposta indiretta al dilagante revival della pittura di citazione, neoespressionista, iper-, trans- e in generale a tutto il postmoderno di cui era critico, facendo ricorso al suo repertorio di “tempere” giovanili elaborate a dimensioni di scala urbana nei cantieri della Giudecca. Questa mostra è una retrospettiva storica che vuole far riflettere sulla straordinaria lezione rivoluzionaria della sua pittura.
La pittura ha giocato un ruolo chiave nello sviluppo del linguaggio visivo di Burri. È in questo rivoluzionario approccio alla materia che risiede l’attualità di un artista come lui?
Ho paragonato la rivoluzione di Burri a quella di Giotto non in senso irriguardoso, ma poiché Burri ha “presentato” la materia vera al posto di una mimesi di essa, come Giotto ha dipinto il cielo azzurro della natura al posto del cielo simbolico e teocratico in oro della tradizione. Lo shock introdotto da Burri è stato quello di ottenere dignità formale, apertura spaziale ed equilibrio compositivo nella pittura impiegando materie obsolete o extra-pittoriche da cui nessuno avrebbe potuto pensare di ricavare nuova forza e bellezza.
Quale dialogo avete innescato fra le opere di Burri e gli ambienti della Fondazione Giorgio Cini?
La mostra segue una traccia cronologica e così abbiamo disegnato negli ambienti della Fondazione Cini un progetto allestitivo dovuto all’architetto Tiziano Sarteanesi, che ha sempre lavorato con Burri, facendo attenzione alle esigenze della sua pittura in rapporto ai luoghi.
Non mancano accorgimenti tra l’opera vera e propria e alcuni interventi documentativi che si innestano nel percorso, come il richiamo a opere giocoforza assenti come il Grande Cretto Gibellina, che tuttavia è presente attraverso la multimedialità.
In quanto presidente della Fondazione Burri, quali strategie e metodi risultano vincenti per avvicinare le nuove generazioni all’opera dell’artista?
Oltre a sottolineare con le opere originali la storia di Burri e della sua pittura, esponendo tutti i grandi cicli, tutta l’opera grafica e la documentazione multimediale della vita, abbiamo avviato una sezione aperta alle esperienze che con Burri o dopo di lui riteniamo abbiano avuto o stiano avendo luogo. Non solo confronti con i suoi contemporanei, ma anche rapporti con la fotografia, il video, le azioni, la musica, la scena teatrale. In tal senso, una mostra di fotografi come Amendola, Basilico, Colombo, Mulas, Loy, Linke, Powell, Gendel e altri è stata inaugurata da poche settimane.
INTERVISTA A LUCA MASSIMO BARBERO ‒ DIRETTORE DELL’ISTITUTO DI STORIA DELL’ARTE DELLA FONDAZIONE GIORGIO CINI
Il legame di Burri con la città di Venezia è innegabile, complici anche le sue partecipazioni alla Biennale. Quanto hanno influito queste vicende sulla carriera di Burri e sul suo riconoscimento da parte della critica italiana?
Le partecipazioni alla Biennale si sono spalmate in un arco cronologico ampio: dal 1952 alla mostra celebrativa del centenario della Biennale nel 1995. Di conseguenza le reazioni alla presenza di Burri sono state estremamente differenti: da caso di straordinaria sperimentazione e avanguardia artistica negli Anni Cinquanta a maestro consacrato a metà degli Anni Novanta. Direi che Burri non ha sofferto della mancanza di riconoscimento, anzi ha sempre potuto contare su una critica “alta”: già nel 1950 la prestigiosa rivista francese Cahiers d’art di Christian Zervos pubblica la foto di un Catrame del 1949. Nel 1963 Cesare Brandi dedica una monografia ad Alberto Burri; nel 1975 è la volta di quella di Vittorio Rubiu per i tipi di Einaudi, nel 1980 Marisa Volpi firma le pagine su Burri all’interno della pionieristica collana di Storia dell’Arte curata sempre da Argan.
La stagione dell’Informale trova in Burri uno dei suoi esponenti più in vista. Che cosa lo differenziò dai colleghi dell’epoca? E quale eredità ha lasciato alle generazioni successive?
Credo che la sua grande singolarità rispetto ad altri esponenti dell’arte informale sia la sua relazione, pressoché fisica ed empirica, con la materia; la radicalità del rapporto coi materiali che ne fa subito un artista d’interesse e un punto di riferimento nel panorama internazionale. Burri ha messo a disposizione delle generazioni successive una più vasta varietà di strumenti con cui “fare arte”, ha aperto la strada fin dal 1948-49 alla materia brutale, ai catrami e alle muffe, formazioni fungine considerate repellenti, vere efflorescenze di una crescita batterica. Alla metà degli Anni Cinquanta è folgorato dall’impiego del fuoco e, dal 1954, dà vita alle prime Combustioni, poi, tra il 1957 e il 1958 è la volta dei Ferri. Burri passa da un materiale all’altro con disinvoltura, dando dunque anche una grande lezione di metodo, forse la più importante.
Il tema della materia è un nodo che buona parte degli artisti si trova a dover sciogliere. Che valore ha, oggi, riportare l’attenzione sull’approccio di Burri alla materia? Quale contributo fornisce al dibattito attuale, in un momento in cui la pittura sembra riguadagnare terreno?
Anche Burri è pittura ‒ attenzione! ‒ solo che i suoi strumenti sono differenti e, tornando alle prime Biennali, non è un caso che egli fosse accolto nelle sezioni della pittura. Non è pittura figurativa, certo, ma è un attentissimo calcolo di masse, volumi, di peso cromatico e di reazione dei materiali. L’importanza di Burri non va soppesata rispetto all’arte attuale, ma rispetto a quanto i movimenti artistici sviluppatisi dagli Anni Sessanta gli debbano. Burri insegna semplicemente a non aver paura – anche di gettarsi fisicamente su un’opera –, a portare avanti la propria ricerca con rigore e a prestare attenzione alla presentazione dell’opera, all’accrochage.
INTERVISTA AL FOTOGRAFO AURELIO AMENDOLA
Quello fra Alberto Burri e Aurelio Amendola è stato un rapporto di fotografia ma anche di amicizia. La storia inizia a metà Anni Settanta, quando Pericle Fazzini presenta Amendola a Burri nel suo studio a Passeggiata di Ripetta. Gli abbiamo chiesto di raccontarci come è andata.
Ero emozionato. Ho chiesto a Burri se potevo fotografarlo mentre lavorava. Lui, asciutto ma gentile, mi rispose di andarlo a trovare nel suo studio umbro, ma mi raccomandò di andarci senza macchine fotografiche. Ci sono andato e gli ho portato un libro che avevo fatto su Giovanni Pisano e Marino Marini. Un lavoro che Burri non mancò di apprezzare. Allora mi ha invitato, insieme a Nemo Sarteanesi, suo carissimo amico, a Morra, doveva aveva una grande casa di caccia. Sono arrivato con le mie Hasselblad e le luci. La mattina dopo mi disse che avrebbe lavorato a una Combustione e io avrei potuto fotografarlo. Ho creato delle sequenze con una certa difficoltà. Non era come oggi con il digitale, allora c’erano i rullini con dodici pose. Bisognava lavorare con attenzione. Quando finalmente, tempo dopo, gliele ho portate, mi ha detto che erano le foto più belle che gli erano state fatte mentre lavorava.
Un’amicizia durata sino alla morte dell’artista.
Ha voluto che fossi io a fotografare la sua mostra al Guggenheim di New York e molte altre sue esposizioni. Non ho avuto con nessun altro artista un rapporto del genere. Ancora oggi mi sento orgoglioso di quello che abbiamo costruito e sono consapevole di non aver mai tradito la sua amicizia e i suoi importanti insegnamenti.
[Angela Madesani in collaborazione con Camilla Coppola]
‒ Arianna Testino
Versione estesa dell’articolo pubblicato su Grandi Mostre #16
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati