Un viaggio nell’archetipo bucolico. Giusy Pirrotta a Milano
Dimora Artica, Milano – fino al 9 giugno 2019. Gelido ma rassicurante, il nuovo spazio di Andrea Lacarpia, in via Dolomiti 11, rimane a tutti gli effetti una “dimora artica”. Ad animarla ora è un percorso espositivo dalle forme grottesche e daii colori tropicali, che Giusy Pirrotta ha costruito con acume ed eleganza.
Eden, Paradiso, Età dell’oro, Arcadia sono archetipi bucolici che la collettività occidentale ha immaginato come luoghi primitivi persi a causa di una catastrofe naturale, di una maledizione divina o, in modo più pragmatico, per lo sviluppo della società. Nell’Ottocento lo scrittore e filosofo Henry Thoreau annunciava la minaccia del distacco con la “vacillante madre di tutti”, abbandonata per “quella cultura che è esclusivamente un’interazione dell’uomo sull’uomo ‒ […] una civiltà destinata ad avere una rapida estinzione”. Se in passato la giustificazione collettiva alla brutalità del sistema sociale passava attraverso l’immagine nostalgica di un momento originario idilliaco, nello scenario attuale, accompagnati da una disillusione manchevole di alternative politiche al capitalismo, l’inconscio comune proietta una nuova Arcadia in un futuro post-apocalittico. Su questa linea si muove il lavoro di Giusy Pirrotta (Reggio Calabria, 1982), che con Taixunia presenta il primo capitolo di un viaggio primordiale costruito a partire da rituali e credenze popolari internazionali. Lo stesso titolo della mostra deriva dalla parola cinese taixu, letteralmente grande vuoto, uno spazio che nella filosofia orientale nulla contiene ma tutto genera e riassorbe dopo la morte.
LA MOSTRA
Taixunia si apre con due calchi bronzei di arti inferiori cavi e un tappeto ‒ purtroppo non calpestabile ‒ realizzato con più di trecento piastrelle in ceramica, che ricorda le tipiche decorazioni portoghesi chiamate azulejos. Sulla superficie, prima della sua cottura in forno, l’artista ha dipinto elementi naturali come ruscelli e montagne, reinterpretando la tradizione pittorica cinese Shan Shui. Questa mappa geografica ideale annuncia il mondo chimerico della mostra, attraversato da maschere e sculture grottesche in ceramica smaltata dai cui fori erompono luci fosforescenti e tentacoli di ciniglia. Non appartengono ad alcuna tradizione nello specifico, ma allo spettatore sembra di averli già intravisti nelle celebrazioni popolari o immaginati in una veglia irrequieta. Sono il prodotto di una società globalizzata, la cui cultura, sempre più sradicata dal concetto di nazione, è un ibrido di ricordi e intenzioni del passato.
Lo conferma la sequenza di immagini d’archivio proiettate attraverso una delle sculture mostruose, tratta dalla raccolta di incisioni Voyage Pittoresque Ou description des Royaumes De Naples et De Sicilie. Si tratta del resoconto visivo del Grand Tour realizzato dal pittore francese Jean–Honoré Fragonard a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, fra le rovine e i paesaggi italiani. La proiezione delle litografie è intervallata da alcuni simboli falsamente ancestrali che Giusy ha disegnato attraverso un segno primitivo, lo stesso che ha utilizzato per marchiare un piccolo tassello ligneo affisso su una parete dello spazio. Tutte le opere in mostra richiamano antiche tradizioni e immaginari collettivi del passato, come se il prodotto artistico di quest’epoca non riflettesse forme e contenuti presenti, ma, indignato per la società attuale, cercasse modelli ideali, anche per il futuro, in tempi andati.
‒ Arianna Cavigioli
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