Fra storia e natura. Gli ibridismi di Latifa Echakhch a Roma
Fondazione Memmo, Roma – fino al 27 ottobre 2019. Memorie mediterranee si intrecciano nella produzione visiva di Latifa Echakhch, in mostra nella Capitale.
Latifa Echakhch, artista franco-marocchina (El Khnansa, 1974), giunge a Roma con il suo carico di memorie, riannodando i fili di un percorso concettuale sviluppato intorno alle coste del Mediterraneo, fra eredità arabe, sud-europee e orientali. Chi la conosce e ha avuto modo di vedere le sue mostre – non ultima Le Jardin Mécanique, a Villa Sauber, Monaco ‒ potrà ritrovare nell’esposizione Romance, curata da Francesco Stocchi alla Fondazione Memmo, i leitmotiv della sua ricerca artistica: il dualismo verità-artificio; le commistioni fra tradizioni autoctone e innesti “nomadici”, culminanti nella reinterpretazione di fatti e oggetti al di là di tempi e luoghi; il tema del colonialismo, nell’ambito sia culturale che dei métissage vegetali.
DAI GIARDINI ESOTICI ALLE STRATIFICAZIONI STORICHE
Nelle sale delle ex scuderie di Palazzo Ruspoli, dove la Fondazione ha sede, al cospetto dei fichi d’India e dei cactus che popolano esoticamente il cortile antistante, Echakhch ha disposto tentacolari tronchi d’albero realizzati in cemento secondo modalità tipiche dei giardini romantici ottocenteschi, là dove la mano dell’uomo gareggiava con la natura nella creazione di rocaille, ovvero false strutture arboree, rocce, grotte. Installazioni che s’incontrano ancor oggi nei parchi romani di Villa Borghese o dell’Istituto Svizzero.
A terra sono sparse in studiato disordine grandi foglie di platano dipinte e ritagliate dalla tela di fondali teatrali. “Il platano, originario del Mediterraneo orientale”, sottolinea Latifa “è stato trapiantato secoli fa nei giardini d’Occidente”. Fra i nodi dei tronchi, l’artista ha sostituito alle foglie cadute oggetti trovati al mercato di Porta Portese – “amo rovistare nei mercati a cielo aperto”, dice ‒ o nei suoi viaggi.
DIMENSIONE DOMESTICA E VISSUTO COLLETTIVO
Talvolta tali trouvaille s’identificano con il vissuto individuale – gocce di lampadari in cristallo considerate espressione di lusso domestico, lembo di tappeto o lanterna islamici, “cose che non sono mai state nella mia casa, ma che richiamano le mie origini”, precisa l’artista; talaltra materializzano, emblematizzandola, la sua idea di faux attraverso un luccicante bijou da palcoscenico o una gigantesca conchiglia kitsch all’interno delle cui valve fioriscono ibride, irreali corolle multicolori. I tronchi si sono arricchiti dunque di “gemme” artificiose, allusive a storie di intere generazioni che hanno trasmesso il loro bagaglio esperienziale attraverso stratificazioni di manufatti, estrapolati dalla quotidianità come dal mondo della finzione e del sogno. “Secondo processi intuitivi, illogici, i più apprezzabili nel lavoro di Latifa”, conclude Francesco Stocchi.
‒ Alessandra Quattordio
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