L’importanza del dialogo. Tre artisti africani a Treviso
Ca’ Sugana, Treviso – fino al 28 giugno 2019. Lontana dal palcoscenico della Biennale di Venezia, ma vicina, sul fronte tematico, alla kermesse lagunare, la mostra allestita a Treviso punta i riflettori su tre artisti africani. E sulla necessità del dialogo come strumento per creare comunità.
La Biennale di Venezia, con il suo enorme corredo di padiglioni esterni ed eventi collaterali, attira un numero sempre crescente di curatori desiderosi di partecipare e dunque di artisti, più o meno famosi, che giungono in Laguna da tutto il mondo. Capita spesso che questi arrivino in volata, lasciando la città dopo i giorni dell’opening, ma può succedere anche che partecipino ad altri eventi, entrando in dialogo con il territorio e arricchendo il tessuto sociale veneziano e del Paese in generale. Si trova a Ca’ Sugana, a Treviso, a solo mezz’ora di treno da Venezia ma in una dimensione estranea al caos e al brillio della Biennale, uno degli esempi di dialogo più semplici ma al contempo significativi di quest’anno: Volere Volare.
Gli artisti in mostra, proposti dall’associazione di psicologi Studioo Onlus e da Simona Carniato, sono tre dei più importanti esponenti dell’arte contemporanea africana: Jelili Atiku (Lagos, Nigeria, 1968), che qui presenta un’installazione derivata dalla performance My Eyes Are Larger Than My Mouth, tenutasi davanti alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano sull’isola della Giudecca nei giorni dell’opening, Abdulrazaq Awofeso (Lagos, Nigeria, 1978), al momento impegnato in una collaborazione con Fondazione Benetton proprio a Treviso, e Gonçalo Mabunda (Maputo, Mozambico, 1975), che rappresenta il suo Paese nel padiglione nazionale a Venezia.
La mostra è estremamente concisa, esponendo una singola opera per ognuno degli artisti e generando uno stretto dialogo sulla macro-tematica delle migrazioni. La narrazione parte dal presente per espandersi verso passato e futuro, mostrando l’inevitabile nesso fra l’Africa e il resto del mondo da una prospettiva personale quanto complessa e umana.
LE OPERE E GLI ARTISTI
L’opera più legata al presente è quella di Awofeso, realizzata a Treviso espressamente per la mostra, di immediato impatto: una figura antropomorfa simile a un giocattolo, accessibile a ogni sguardo, giace seduta sul piedistallo con un’espressione neutra, sulle spalle ha un paio di ali distrutte da una combustione. L’opera, intitolata eloquentemente Icaro, è un chiaro riferimento al viaggio della speranza dall’Africa centrale all’Europa, in cui spesso il sogno di volare, le speranze di una vita migliore e più semplice si bruciano al contatto con la realtà.
Mabunda si rivolge invece al legame del presente col passato, al colonialismo e all’eredità distruttiva lasciata dagli europei in Africa. Si tratta di un trono realizzato con residui bellici del Mozambico, che dopo dieci anni di guerre d’indipendenza ne ha conosciuti quindici di guerra civile strettamente connessa allo sfruttamento europeo. I bossoli, le mine e i fucili si fondono insieme in un trono rituale che gioca con la fascinazione occidentale per l’esotico, utilizzando l’elemento esterno che più di tutti ha straziato il Paese, creando povertà e conseguentemente la necessità di emigrare.
La performance di Atiku in Giudecca proietta la sofferenza psichica del migrante nel futuro, collegandola all’umanità intera nell’epoca tardocapitalista. Attraverso la pittura del corpo, utilizzata in diversi riti africani, l’artista si mimetizza con il bianco della chiesa e pianta dei chiodi dorati, simbolo delle sovrastrutture consumiste, in un teschio nero, atrofizzandone simbolicamente il pensiero. Dopo aver indossato un casco dorato, invita il pubblico a tirargli delle uova negli occhi, in una dimostrazione molto potente di come un ordine impartito possa annullare la naturale solidarietà umana, spingendo il pubblico a un atto di disprezzo normalizzato.
DIALOGO E UMANITÀ
La scelta delle opere e il profondo lavoro svolto dalla psicologa Carniato ‒ non una curatrice professionista ‒ insieme agli artisti dopo anni di soggiorni in Africa, sviluppa una riflessione chiara e indipendente, che mira a una profonda sensibilizzazione sulle complesse tematiche della migrazione, della speranza e della fatica, oltre che della terribile sofferenza psichica. Tenendosi distante da ogni generalizzazione, che vorrebbe ridurre l’argomento a uno sterile scontro di civiltà, Volere Volare punta alla fertilità che può scaturire dall’apertura e dalla comprensione di una tematica complessa e profondamente umana. Infine, l’essere riusciti a portare tutto ciò all’interno di una casa municipale gestita da una giunta leghista è un gesto di per sé potentissimo.
‒ Pietro Consolandi
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