Pittura lingua viva. Parola ad Andrea Carpita
Viva, morta o X? 39esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Andrea Carpita (1988) è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Carrara. Tra le mostre personali recenti: Some Things Last a Long Time, Angelo Della Pergola 1, Milano, 2019. Tra le collettive: Premio Lissone 2018, MAC, Lissone, 2018; Birthmarks / Voglie, The Flat ‒ Massimo Carasi, Milano, 2018; In the Depth of the Surface / II act, Pablo’s Birthday Gallery, New York, 2018; Summershow, The Flat ‒ Massimo Carasi, Milano, 2017; TU35 EXPANDED, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato, 2017; Passengers, The Flat ‒ Massimo Carasi, Milano, 2017.
Come ti sei avvicinato alla pittura? Quali sono i limiti di questo mezzo che ti sei ripromesso di indagare e mettere in luce?
Credo non ci sia stato un momento preciso o una rivelazione, semplicemente l’ho sempre fatto. Quando ero bambino disegnavo quasi continuamente (avevo una predilezione per i pennarelli Giotto e gli acquerelli scadenti) e non mi sono mai chiesto cosa stessi facendo. Disegnavo e sentivo che dovevo farlo, come credo ogni bambino. Non mi sono mai fermato e anche oggi sento semplicemente di doverlo fare. Possiamo chiamarla urgenza o passione, per me è solo una cosa che non posso smettere di fare. Ho seguito un mio istinto, è una storia piuttosto semplice.
Chi sono i maestri e gli artisti cui guardi?
Sono estremamente curioso e mi guardo spesso intorno, ci sono innumerevoli artisti che ammiro profondamente, Henri Matisse, Peter Doig, Hernan Bas, Ed Rusha, Richard Tuttle, David Hockney, Sigmar Polke, Laura Owens, Domenico Gnoli e molti altri ancora. Però, se penso alla parola “maestro”, non posso che risponderti Hokusai, Yoshitoshi, Kuniyoshi e tutti i maestri dell’Ukiyo-e.
Ho una ricerca sempre più basata sulla forza e la versatilità del segno, del disegno e della forma e credo sia inevitabile andare a cercare maestri in quella parte di mondo e di tempo.
Ci sono tecniche o formati che prediligi?
Ho sempre preferito piccoli formati per la naturale intimità che implicano e continuo a utilizzarli, soprattutto nel disegno su carta, cosa che tra l’altro ho riscoperto da non molto tempo, ma da un anno circa lavoro prevalentemente con formati medi e grandi. Credo che il mio lavoro attuale sia più adatto a questo tipo di formato e credo che la scelta vada fatta secondo questo tipo di criterio.
Figurazione e astrazione: quando inizia una e finisce l’altra?
Buona parte del mio lavoro si concentra decisamente su questa domanda, a essere sincero mi tormenta, e ho sempre tentato di camminare su questo filo talvolta molto sottile. Credo che distinguere questi due campi oggi sia un grosso limite che noi artisti ci imponiamo per primi e che, forse, non spetta a noi definire. Così mi diverte tentare di confondere le cose quando è possibile, per avvicinarmi all’ambiguità. Mi rendo anche conto che a un certo punto un’attitudine prevarica rispetto all’altra, ma il risultato finale, ridotto ai minimi termini, è sempre quella cosa, la pittura.
Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Quasi dieci anni fa ho iniziato a lavorare con la mia prima galleria. Nonostante avessi già una ricerca apparentemente solida, mi sono accorto piano piano che forse avevo bisogno di capire meglio cosa volessi fare davvero su una tela. Non mi riconoscevo più. Ho letteralmente stravolto tutto e ho continuato a farlo per molto, avevo bisogno di riconoscermi di nuovo. Tutto ciò mi ha inevitabilmente escluso da tante cose, ma ho continuato a sperimentare, fare e disfare continuamente per anni (molti). Ogni tanto mi capita di trovare una vecchia opera e ricordarmi con stupore di aver fatto pure quel dipinto, completamente cancellato dalla mia memoria. A cosa mi è servito? Non ne sono certo, ma con il tempo le cose più importanti hanno iniziato a emergere e ho potuto individuarle passo per passo. Non è stato bello, ma sono riuscito a mettere insieme tanti elementi separati che volevo e dovevo legare.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Se dovessi assecondare tutto me stesso, la mia pittura sarebbe infinita.
Come scegli i tuoi soggetti?
I miei soggetti sono sempre stati legati al mio vissuto, cose che mi interessano da molto e che considero ormai parte della mia vita. Mi piace immaginare questi soggetti come satelliti che orbitano attorno a me e attirano la mia attenzione per un po’. Ho una naturale predisposizione nell’ossessionarmi alle cose più disparate, quindi non faccio fatica a individuare una tematica nuova.
Quale il rapporto tra la tua pittura, la fotografia e le immagini digitali?
È un rapporto attualmente obbligato e necessario: il mio lavoro inizia da una fotografia, si sviluppa in digitale e si conclude in pittura.
E dipingi anche dal vero?
L’ho fatto. Una delle ultime serie (Exercises) non era altro che un esercizio di pittura (o disegno) dal vero, ma è difficilmente adattabile al mio lavoro attuale e quel tipo di esigenza non aggiungerebbe nulla rispetto a ciò che tento di fare.
Il disegno, quindi… Che ruolo svolge nella tua pratica?
Come dicevo, in Exercises il disegno era centrale. Raccoglievo piante intorno a casa mia, le lasciavo essiccare e iniziavo a disegnarle su una tela dipinta a olio fresco. Le disegnavo senza mai guardare la progressione del lavoro e una volta finito potevo decidere se ricominciare da capo o non toccarlo più. Avevo in mente una serie di opere in cui l’errore diventava la componente centrale e immaginavo questi disegni sbagliati, storti. Mi sono accorto invece di quanto il cervello possa memorizzare velocemente una forma anche senza guardare la progressione del disegno. È stato affascinante e credo sia stato un ottimo allenamento, ma non mi bastava e aveva dei grossi limiti.
Citavi prima l’Ukiyo-e. Come è nata la fascinazione per questa iconografia giapponese?
Sono sempre stato circondato dal Giappone. Quando ero bambino guardavo molti anime in TV, mio padre faceva karate e nel tempo libero coltivava Bonsai: credo che in quella situazione fosse impossibile non essere influenzato da quel tipo di cultura. Nell’Ukiyo-e invece mi ci sono imbattuto durante gli studi in Accademia, conoscevo già le stampe giapponesi, ma volevo approfondirle. Così ho comprato un grande catalogo di Hokusai. Dire di aver avuto una folgorazione è riduttivo: passavo ore a osservare quelle stampe, trovavo quei disegni così mistici, eleganti, ancestrali e capaci di catturare la reale forma delle cose. Tuttora penso che alcuni autori giapponesi di quell’epoca abbiano raggiunto un livello semplicemente impareggiabile.
Anche il ritratto è un genere che hai affrontato, portandolo però all’astrazione attraverso un sofisticato lavoro di sottrazione formale. Penso ai tuoi Minimum Portraits…
Con i Minimum Portraits ho iniziato a lavorare in digitale per pensare e realizzare un dipinto. La serie nasce con l’intenzione di astrarre un volto e allo stesso tempo rappresentarlo, mantenendo o replicando alcuni tratti precisi e geometricamente aderenti alla persona. I Minimum Portraits sono le fondamenta di quello che dipingo oggi, hanno un modus operandi piuttosto simile. Paradossalmente, proprio quando mi sono avvicinato di più all’astrazione ho capito che in tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento la figura era rimasta là sotto, sempre presente, come una grossa e profonda radice che non voleva andarsene.
Cosa rappresenta il lavoro in studio per te?
Lavorare con le pantofole ai piedi.
Parliamo di Some Things Last A Long Time, prima di una serie di opere dedicate a Daniel Johnston, cantautore e pittore statunitense considerato il più grande outsider dell’ultima scuola di cantautori americani. Come è nato?
Sto lavorando da molti mesi a una serie dedicata alla figura di Kurt Cobain, che è stato una vera e propria ossessione nella mia adolescenza, e per una serie di eventi casuali, piuttosto recenti, mi sono imbattuto in Daniel Johnston, strettamente collegato a Kurt Cobain e un certo tipo di cultura americana degli Anni Novanta. È stato tutto molto lineare e chiaro e mi sono sentito profondamente attratto da quella figura: un folle totalmente negato per la musica e il disegno, incapace di rendersene conto e proprio per questo incapace di arrendersi. Mi piace soprattutto l’idea di aver creato due serie parallele che dialogano tra di loro, si completano a vicenda.
Ricollegandosi a questo, quali sono le tue fonti di ispirazione? Letterarie, musicali, cinematografiche…
Non so quanto le fonti che tu citi contino realmente. Ho bisogno di un rapporto particolare con una fonte, per trasformarla in un soggetto o in una serie e alle volte mi rendo conto solo dopo molto tempo che una determinata cosa ha influenzato il mio lavoro: Kurt Cobain e Daniel Johnston sono frutto di un interesse nato quindici anni fa. Attualmente, se ne avessi il tempo, credo potrei portare avanti almeno quattro serie diverse e parallele, perché le mie reali fonti di ispirazione sono tante, alle volte molto intime e spesso molto distanti tra di loro, e tutto ciò crea in me una sana ossessione, a tal punto da considerarle parte di un lavoro autobiografico.
Come definiresti la tua pittura?
Affamata.
Perché fare pittura oggi?
Ti rispondo con una domanda: “Perché l’uomo ha sempre dipinto?”.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Non so darti una risposta precisa, non mi piace l’idea di racchiudere la pittura in limiti geografici. Ci sono pittori molto bravi, pittori meno bravi e pessimi pittori, come in ogni luogo, ma ho come l’impressione che alle volte siamo un po’ troppo concentrati a guardarci l’ombelico piuttosto che l’orizzonte. E questo è un problema più generale.
‒ Damiano Gullì
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