La Biennale di Venezia all’epoca di Trump

La Biennale di Venezia all’epoca di Trump: un altro modo di “leggere” la più importante mostra al mondo.

Molte delle opere esposte in questa sede affrontano le tematiche contemporanee più preoccupanti, dall’accelerazione dei cambiamenti climatici alla rinascita dei programmi nazionalisti in tutto il mondo, dall’impatto pervasivo dei social media alla crescente disuguaglianza economica”, così Ralph Rugoff nel suo testo introduttivo alla 58esima Biennale d’Arte di Venezia.
Subito dopo, però, arriva la glossa: “Tuttavia, dobbiamo partire dal presupposto per cui l’arte è più di una mera documentazione del periodo storico in cui viene realizzata. A differenza del giornalismo e del reportage storico, l’arte presenta una differenza rispetto alla trama dei fatti”.
La scelta degli artisti da inserire nella sua Biennale, se non contraddice nemmeno conferma, però, questo alleggerimento teorico operato da Rugoff. Forzando un poco (ma nemmeno moltissimo) la lettura dei materiali utilizzati, una venatura – non la sola, ma certamente rilevante ‒ emerge evidente. E questo anche se nel kit che la Biennale destina ai media Rugoff è presentato come direttore della prestigiosa Hayward Gallery di Londra e già direttore artistico della XIII Biennale di Lione, curiosamente senza un cenno alla sua formazione. Perché Rugoff è americano, anzi newyorkese e si è formato alla Brown, università della Ivy League tra le più prestigiose e selettive e liberal del Nord America, da sempre famosa per sfornare élite mille miglia lontane dai “valori” espressi dal presidente con il ciuffo arancione. Pure la scelta della giuria di questa 58esima edizione di assegnare il Leone d’oro ad Arthur Jafa e la menzione speciale a Otobong Nkanga, sommate al Leone d’oro alla carriera assegnato a Jimmie Durham, conferma una speciale sensibilità.

58. Biennale di Venezia. Arthur Jafa. Photo Andrea Avezzù

58. Biennale di Venezia. Arthur Jafa. Photo Andrea Avezzù

GLI ATTIVISTI AFROAMERICANI

Durham, scultore, saggista e poeta, è nato a Huston, Texas non è nero, ma ha militato nei movimenti per i diritti civili degli afroamericani e dei nativi americani negli Anni Settanta. Arthur Jafa, che ha diretto, dal 2016 a oggi, videoclip per Jay-Z, Beyoncé e Solange Knowles, invece è nato in uno stato difficile ‒ per lui che è afroamericano ‒ come il Mississipi. Figlio di un Black Panther, Jafa ha spesso affermato che il suo obiettivo principale è “replicare la potenza, la bellezza e l’alienazione della musica nera”. Percorrendo gli spazi de Giardini e dell’Arsenale è impossibile non tornare con la mente alle celeberrime 28 paginette del Tom Wolfe di Radical Chic: that party at Lenny’s. Wolfe, nel suo reportage scritto nel 1970 per il New York Magazine, racconta dell’incontro organizzato da Felicia Montealegre, moglie di Leonard Bernstein (laurea ad Harvard, direttore dell’orchestra Filarmonica di New York) nella sua lussuosa casa a Manhattan. Quella sera (era il 1970) si mescolarono per la prima volta celebrities, appartenenti all’élite intellettuale liberal, ed esponenti per niente inclusivi dei Black Panther: lo scopo era quello di raccogliere fondi per la difesa legale di alcuni di loro. All’Arsenale la minacciosa installazione di Jafa esalta la forza fisica del popolo nero, rappresentata da enormi pneumatici neri rivestiti di tessuto nero e imbrigliati in catene d’acciaio: al centro l’immagine di un neonato nero. L’insieme rovescia su chi guarda un razzismo al contrario, lo stesso di suprematisti neri come Malcolm X e Elijah Muhammad. Così come nel suo travolgente White Album proiettato ai Giardini riemerge la medesima lettura radicale di quel decennio, che prevedeva l’ottica afroamericana come l’unica possibile interpretazione del mondo. Al centro del video sta il messaggio consegnato da Dylann Roof, un altro suprematista ‒ questa volta bianco ‒ prima del massacro consumato presso la Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston con lo scopo di scatenare un conflitto razziale su vasta scala. Jafa è un intellettuale appartenente al mainstream culturale americano? Tutto parrebbe confermarlo, ma Barack e Michelle hanno sloggiato da Washington e al loro posto si sono insediati Donald e Melania: viviamo in tempi particolari e le interpretazione “buoniste” delle opere di Jafa non ci hanno mai convinto. Jafa oggi ha 59 anni, mentre Kahlil Joseph, che è afroamericano come lui e regista di video musicali come lui, di anni ne ha venti anni di meno. Nato a Seattle, si è laureato alla Loyola Marymount University un’ottima università privata di Los Angeles a cui non si accede senza una famiglia benestante alle spalle. Kahlil è presente con una installazione video gigantesca all’Arsenale: Il suo BLKNWS è stato progettato come un programma televisivo, un remix di materiali video provenienti da YouTube, meme digitali, stories di Instagram, spezzoni di telegiornali e interviste fatte in studio, tutti accomunati da un fattore comune: i protagonisti sono sempre e solo afroamericani. Stan Douglas, che è un black-canadian, all’Arsenale ha esposto invece una sequenza di cinque foto tratte da Scenes from the Blackout, dove immagina la reazione degli abitanti di New York di fronte a una simile emergenza e i vari gradi di disobbedienza civile: razzie, furti e caos. Poche immagini all’Arsenale, ma un’installazione video monumentale ai Giardini, anche questa, come tutti i video di questa edizione, con un sonoro – crediamo volutamente – decisamente superiore al normale. Doppelgänger viene visualizzata su due schermi traslucidi, ciascuno dei quali può essere visualizzato da entrambi i lati e la narrazione in loop si svolge entro vignette affiancate che rappresentano eventi in mondi distanti, una parabola sfumata e stratificata che affronta potentemente la posizione dell'”altro” nella società contemporanea. Un tema ricorrente, che in modo completamente diverso lo stesso Arthur Jafa ha sviluppato in passato nel suo più noto Love is the Message, the Message is Death. Al centro del trittico di Henry Taylor, altro afroamericano che però vive e lavora a Los Angeles, compaiono invece dinamiche inique che condizionano la vita degli afroamericani negli Stati Uniti.

Padiglione Centrale Giardini, Biennale Arte 2019, Njideka Akunyili Crosby ph. Irene Fanizza

Padiglione Centrale Giardini, Biennale Arte 2019, Njideka Akunyili Crosby ph. Irene Fanizza

L’ASCESA DELLA DIASPORA NERA

I tre grandi acrilici di Taylor sono stati disposti da Rugoff all’Arsenale in una strettoia creata appositamente per fronteggiare otto piccole tele di Njideka Akunyili Crosby, che appartiene invece alla diaspora nigeriana e, come Taylor, risiede a Los Angeles. La madre vinse alla lotteria la green card per la famiglia, permettendole di studiare all’estero. Dopo essersi diplomata a Yale nel 2011, Njideka Akunyili Crosby è stata selezionata come artista in residenza nel prestigioso Studio Museum di Harlem, noto per la promozione e il sostegno di artisti africani emergenti. Per la Biennale Akunyili Crosby ha creato questo gruppo di ritratti che esplorano la leggibilità del corpo degli africani come una superficie, in cui segni tribali, come capelli, pelle, vestiti e gioielli, risuonano culturalmente e storicamente. Nigeriana è pure Otobong Nkanga che ha ricevuto la menzione speciale della giuria. All’Arsenale descrive il paesaggio come un corpo vivente, che nutre ma è anche razziato, sfregiato e avvelenato. Lo ha fatto con una vena di vetro colorato e marmo lunga 26 metri, che fa pensare a un fiume inquinato, come quelli che scorrono tra la natura selvaggia del suo Paese d’origine, devastato da un’infinita guerra per bande, ricchezze pessimamente distribuite, e devastanti interessi neocoloniali. Nei lavori della nigeriana Frida Orupabo (che vive e lavora a Oslo), tanto i collage di carte con perni montati su alluminio esposti ai Giardini che i video-collage affiancati dell’Arsenale testimoniano il suo interesse di sociologa per l’utilizzo del corpo della donna nera, prodotti dalla storia dell’arte, dal colonialismo, dalla scienza e dalla cultura popolare. Anche nei lavori del sudafricano Kemang Wa Lehulere ‒ si tratti dell’installazione dei Giardini o di quella dell’Arsenale ‒ tutti i riferimenti provengono dalla drammatica vicenda dei neri in Sud Africa. Sudafricana è pure Zanele Muholi: Rugoff ha disseminato gli spazi dell’Arsenale delle sue gigantografie in bianco e nero, esattamente come ha fatto per i disegni di Ed Atkins ai Giardini. Parlano non solo di razza ma soprattutto di genere: si tratta di una selezione operata su un set di 365 ritratti con cui Muholi ha voluto illustrare per un anno la vita di lesbiche, gay, transgender e intersessuali: purché neri.

Aldo Premoli

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Aldo Premoli

Aldo Premoli

Milanese di nascita, dopo un lungo periodo trascorso in Sicilia ora risiede a Cernobbio. Lunghi periodi li trascorre a New York, dove lavorano i suoi figli. Tra il 1989 e il 2000 dirige “L’Uomo Vogue”. Nel 2001 fonda Apstudio e…

Scopri di più