Mario Merz Prize 2019. Uno sguardo ai cinque finalisti
Un focus sui cinque finalisti del Mario Merz Prize nella sezione arte.
Lunedì 3 giugno sono stati presentati i finalisti della terza edizione del Mario Merz Prize, l’unico premio internazionale per l’arte e la musica contemporanee. A cadenza biennale, il Premio consente ad artisti e compositori di media carriera, senza limiti né di nazionalità né di età – “il premio sarà dedicato a coloro che nutrono la giusta volontà di perseguire le proprie ricerche al di là delle opposizioni derivanti dall’appartenenza politica, sociale, geografica”, recita il comunicato della Fondazione – di condurre la propria ricerca innovatrice perseguendo le “caratteristiche di internazionalità, generosità di pensiero, attenzione sociale” e di prendere parte a una programmazione espositiva e di attività musicale in Italia e in Svizzera (luogo di origine e nazionalità di Mario Merz). I vincitori delle scorse edizioni sono stati: per il settore arte Wael Shawky e Petrit Halilaj, per la sezione musica Cyrill Schürch e Geoffrey Gordon. I finalisti della terza edizione per la sezione musica sono Annachiara Gedda (Italia, 1986), Mauro Lanza (Francia, 1975), Filippo Perocco (Italia, 1972), Robert HP Platz (Germania, 1958) e Jay Schwartz (Germania, 1965).
La Fondazione Merz ospita, fino a domenica 6 ottobre, la mostra dei cinque finalisti della terza edizione del Mario Merz Prize per il settore arte – Bertille Bak, Mircea Cantor, David Maljkovic, Maria Papadimitriou, Unknown Friend. I finalisti sono stati selezionati da una giuria composta da Samuel Gross (responsabile artistico dell’Istituto Svizzero), Claudia Gioia (curatrice indipendente) e Beatrice Merz (presidente della Fondazione Merz), curatori dell’esposizione. Le giurie internazionali per la scelta dei vincitori quest’anno sono composte per l’arte da Manuel Borja-Villel (Direttore Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid), Lawrence Weiner (artista), Massimiliano Gioni (Capo Curatore del New Museum, New York – Direttore artistico Fondazione Trussardi, Milano) e Beatrice Merz. Anche il pubblico può partecipare attivamente alle selezioni, esprimendo la propria preferenza sul sito mariomerzprize.org. L’annuncio dell’esito del premio avrà luogo a Madrid, in occasione dell’apertura della mostra monografica dedicata a Mario Merz presso il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia: al vincitore verrà commissionata una serie di opere da presentare nell’ambito di una mostra personale (novembre 2020).
Due sembrano le caratteristiche principali della collettiva, omogenea per l’altissima qualità di pensiero e tecnica ma diversificata per le personalità: innanzitutto, una profonda ricerca letteraria, ovvero la necessità di raccontare servendosi della tradizione “dotta” e dell’esperienza esistenziale degli artisti – grande spazio è concesso allo storytelling, insomma –, la seconda è una necessaria simplicitas, intesa come schiettezza, naturalezza e capacità di sintesi e di ordine tra migliaia di plausibili principi. Il risultato è una mostra leggibile a più livelli di intensità: linee di pensiero evidenti e nette si sovrappongono a folgorazioni sottese, a stratagemmi segreti che attirano più o meno consciamente l’osservatore. Una rarità di comunione di intenti che rende questa edizione la migliore finora realizzata, memorabile per la sua percepibile attenzione alla carica culturale ed emotiva di ogni opera. Ecco alcune riflessioni sulle proposte dei partecipanti.
BERTILLE BAK (ARRAS, 1983)
La giovane artista francese trasforma l’analisi del processo di integrazione delle comunità rom parigine e torinesi in un percorso composto da un video, una sequenza di tabelloni elettronici delle linee metropolitane, una serie di cartoline dipinte e un’installazione con bandiere create con le tende a uncinetto delle roulotte. Lo scandire del tempo dipende da un’originale unità di misura: la durata del semaforo rosso sulle strade torinesi, durante la quale molti rom tentano di lavare i parabrezza delle auto in coda. Ogni particolare dell’ambiziosa installazione di Bertille Bak è determinata dall’alternanza di rumori – il traffico, il baccano delle fake news e delle parole d’odio – e silenzi – durante i quali le bandiere sventolano; gli attimi in cui l’arte può determinare il cambiamento. L’opera sviluppa un dialogo necessario e a tinte armoniose tra diversi strati sociali, auspicandone l’accettazione reciproca.
MIRCEA CANTOR (ORADEA, 1977)
Servirebbe un libro intero per spiegare la forza evocatrice e visionaria di Mircea Cantor, artista romeno che, con una propensione disarmante, rende necessaria ogni modalità di espressione che abbraccia. Aquila non capit muscas (2018) è il capolavoro video di questa edizione: con poche ma studiatissime e ineccepibili sequenze, gli occhi dell’artista mitizzano la lotta tra una maestosa aquila dorata e un drone. Una scena prodigiosamente epica che prende le mosse dall’attento studio delle tradizioni arcaiche più cruente e della raffinata letteratura classica – chiacchierando con l’artista, con scioltezza si è parlato di Icaro, Prometeo e Alessandro Magno – e che al contempo nobilita la condizione umana nel dilemma tra natura e tecnologia, tra passato e contemporaneo. La ricerca della rassicurante bipolarità determina una rinnovata simbologia: se l’animale allude alla fierezza, alla determinazione e al sacrificio – infatti l’aquila è stata pazientemente addestrata a una caccia insolita, soprannaturale –, il drone rappresenta l’inaspettato, l’inatteso. Una parte di noi paradossale allorché è regolata dall’indefinibile.
DAVID MALJKOVIC (RIJEKA, 1973)
Se Cantor ha enfatizzato e rinnovato l’aspetto epico dell’esistenza partendo dal generale al particolare, l’istriano David Maljkovic parte da particolari elementi funzionali, oggetti da ufficio di utilizzo comune e apparentemente banali quali sedie, tavoli e cavalletti (e un cactus essiccato) e li decontestualizza dalla monotonia e dalla quotidianità per nobilitarli quali atomi dell’utopia societaria. Un’installazione che malinconicamente, dubita, smonta, rimonta e concretizza l’unione di sfera pubblica e sfera intima con netti slittamenti semantici. La decostruzione parte dall’attenta segnalazione dei meccanismi di riproduzione per ricongiungere le parti nel generale; una poesia che rende Maljkovic un maestro d’archiviazione di strumenti umani.
MARIA PAPADIMITRIOU (ATENE, 1957)
Non è una sorpresa che Vittorio Alfieri abbia scelto l’Antigone come oggetto della sua omonima tragedia: sulla scorta di quella sofoclea, l’eroina figlia di Edipo che combatteva e soccombeva a un despota permetteva di denunciare palesemente l’avversione viscerale nei confronti della tirannide. Tale è la potenza di Unpacking Antigone (2017-19), opera che l’artista di origini greche Maria Papadimitriou dedica a un presente di condivisione e di “racconto sociale”. Un processo creativo definito “generoso”, veterano di molti studi e sperimentazioni: l’installazione rievoca, attraverso simboli accatastati tra loro – spicca il teschio di montone, da cui Papadimitriou ha spiegato derivi la parola “tragedia”, composta dal greco trágos ‘capro’ e ōidḗ ‘canto’, cioè ‘canto dei capri’, con allusione al dramma satiresco al rito dionisiaco –, alcuni aspetti della vicenda di Antigone come il senso della giustizia, la devozione alla famiglia e il destino di morte. La valorosità, la tenacia e la fermezza passano dal racconto all’artista e dall’artista all’opera, con assoluta catarsi.
UNKNOWN FRIEND – STEPHEN G. RHODES (HOUSTON, 1977) E BARRY JOHNSTON (ALTON, 1980)
Il duo artistico statunitense Unknown Friend, composto da Stephen G. Rhodes e Barry Johnston, espone un’installazione video dal titolo Sivilitation’s Wake (2018), frutto della ricerca condotta sul romanzo Le avventure di Huckleberry Finn (1884) di Mark Twain, estrapolandone le idee di civilizzazione e di odio raziale radicate nella cultura dal XIX secolo a oggi. Girato tra Stati Uniti e Italia, il film comprova l’“attitudine tragico-giocosa” dei due artisti; eppure, qualcosa sembra ancora essere approssimativo.
‒ Federica Maria Giallombardo
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