Trappole dell’acting (V)
Che cosa succede quando il principio della likeability invade il terreno dell’arte? Ruota attorno a questa faccenda il nuovo capitolo della rubrica di Christian Caliandro.
“La pubblicità ormai non ha più limite, la pubblicità ‒ come posso dire ‒ ha sostituito l’animo umano. La gente al giorno d’oggi crede che la letteratura, parlare o fare letteratura sia fare pubblicità a qualcosa. La letteratura è muta, non fa pubblicità a niente, non serve a niente, la letteratura ci riafferma questo niente che siamo. E solo perché siamo un niente noi abbiamo bisogno di stare assieme. Non c’è idea di comunità possibile se non a partire dal fatto che siamo un niente, ciascuno di noi è un niente. Ecco, tutto questo lo sfondo pubblicitario non solo lo cancella, deve cancellarlo subito ‒ come un tabù assoluto ‒, ma estende anche un clima di terrore, un terrore totalitario: chi non è d’accordo con questo consenso degli uomini che vogliono essere qualcosa, qualcuno, sostanzialmente essere ricchi, avere del potere nelle mani, questa democratizzazione del potere tirannico nelle mani degli uomini ‒ chi non è d’accordo con questo è eliminato, al giorno d’oggi non trova lavoro, non ha un luogo dove stare” (Gianni Celati, Leopardi e il desiderio infinito, “L’Unità”, 28 marzo 2004).
La likeability è direttamente opposta all’arte e alla sperimentazione culturale: non c’entra nulla con queste dimensioni. Infatti, secondo questo criterio, io devo promuovere e pubblicizzare me stesso, innanzitutto me stesso – e non il mio contenuto. Il mio contenuto, di fatto, è del tutto secondario, accessorio. Il contenuto è il veicolo del vero messaggio: IO. Io io io.
La likeability rappresenta un sondaggio permanente sulla mia persona, sulla mia identità, sulla mia comunicabilità, sulla mia popolarità. Il messaggio, unico e solo, è costituito dalla mia popolarità. Ogni altro contenuto non conta, è superfluo.
LIKEABILITY E ARTE
È chiaro che, nel momento in cui la likeability infetta la produzione e la ricerca artistica, informa cioè direttamente e profondamente il modo in cui l’opera viene pensata e realizzata, l’opera scompare. Svanisce. Si disintegra. L’opera non può esistere nel regime della likeability, perché molto semplicemente quest’ultima costruisce un ambiente integralmente ostile a essa. È come se le togliesse l’aria da respirare, il nutrimento necessario all’esistenza.
Il motivo? Se la likeability promuove e spinge unicamente il soggetto, ogni oggetto non sopravvive, non ha spazio, se non in quanto simulazione, artificio. Infatti, ogni opera appartenente all’era della likeability ha questo aspetto farlocco, finto, posticcio. Suona falsa, appare falsa – perché la likeability è costitutivamente contraria alla verità. (E si capisce bene perché: la verità è sempre impopolare, difficile da digerire, dura da accettare; non dirò “scomoda” perché anche questo è un aggettivo che, in definitiva, puzza di likeability).
“Ho già percorso territori pericolosi. Siamo in un territorio pericoloso in questo momento, per via dei nostri segreti e delle nostre bugie. Sono praticamente ciò che ci rende quello che siamo. Quando la verità è scomoda, noi mentiamo e mentiamo finché non riusciamo più a ricordare che ci sia ancora una verità. Ma è sempre lì. Ogni bugia che pronunciamo comporta un debito verso la verità. Presto o tardi, quel debito sarà pagato. È così che il nocciolo di un reattore RBMK esplode: bugie” (Legasov in Chernobyl, HBO, episodio 5).
UNO DEGLI ANTIDOTI
L’antidoto, o quantomeno uno degli antidoti? Un’arte totalmente aperta e disponibile nei confronti dell’esistente e del presente, di ciò che il pensiero e la realtà altrui ci offrono: ciò vuol dire principalmente non cercare di rispecchiare noi stessi e le nostre preoccupazioni, i nostri circuiti, di tentare di ritrovare ciò che già sappiamo all’interno di questa realtà, ma rimanere ricettivi e pronti all’inedito, all’inatteso, all’imprevisto.
Un’arte dunque che vuole (tornare a) essere utile per le persone, che si fonda totalmente sulla costruzione paziente, umile e laboriosa di relazioni umane; un’arte che fuoriesce completamente dal recinto istituzionale e che si connette direttamente con la vita quotidiana, che si immerge con voluttà e sregolatezza nel tessuto dell’esistenza, identificandosi e mimetizzandosi e fondendosi con esso: un’arte che vive di comunità e di elaborazione collettiva, di processi che hanno a che fare con lo stare-insieme, con il vivere-in-comune.
Stare insieme e vivere in comune a cui la likeability si oppone strutturalmente, perché appunto la convivenza non funziona affatto sulla base dell’identificazione con le bugie: “Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo” (Giulio Andreotti ne Il Divo, Paolo Sorrentino 2008).
‒ Christian Caliandro
Trappole dell’acting (I). May You Live in Interesting Times
Trappole dell’acting (II). Padiglione Italia. Né altra, né questa
Trappole dell’acting (III). Rebecca Moccia, Fireworks
Trappole dell’acting (IV)
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