Un bivacco alpino in Laguna (a San Servolo). Intervista all’artista Hannes Egger
Un accampamento tipico alpino sull’Isola di San Servolo a Venezia. Hannes Egger ci racconta il progetto Bivacco
Può accadere che vagando nei luoghi della Laguna veneziana, tra padiglioni nazionali, eventi collaterali e appuntamenti legati alla Biennale, ci si imbatta in un bivacco alpino, strano elemento architettonico trasportato sull’isola di San Servolo direttamente dal confine italo-austriaco. Si tratta di un’operazione spiazzante, capace di connettere idealmente luoghi distanti, ma anche di un piccolo museo alternativo che con una mostra minimale a cura di Christiane Rekade, ci parla di luoghi di transito, di viaggio e protezione. Ne abbiamo discusso con Hannes Egger, ideatore del progetto ed espositore all’interno di Bivacco.
Portare un bivacco di alta montagna nella Laguna veneziana sull’Isola di San Servolo: com’è nata quest’idea?
L’idea è nata qualche anno fa durante una scalata in montagna. Non è la prima volta che lavoro sulla relazione tra le Alpi e Venezia: già nel 2011 ho realizzato all’interno del Padiglione dell’Austria una linea di collegamento tra la cima austriaca del Großvenediger (da cui si dice che nei giorni tersi si possa vendere addirittura la Laguna veneta) e Venezia, registrando in diretta il pubblico dei Giardini e trasmettendolo in un rifugio di quella montagna.
La vicina Biennale con il tema proposto da Ralph Rugoff – May You Live in Interesting Times – augura “tempi interessanti” che però possono anche essere interpretati come “tempi instabili”. L’idea di impiegare un rifugio alpino alle intemperie come piccolo museo d’emergenza può simboleggiare una protezione per i tempi instabili della cultura?
Quando ho sentito per la prima volta il tema della Biennale 2019 ho capito che era il momento giusto per realizzare il progetto. I tempi sono instabili, socialmente ma anche politicamente. Le montagne spesso sono luoghi di ritiro e di rifugio. Il filosofo ceco Vilém Flusser parla delle montagne come di un luogo di dialogo. Per lui era importante rifugiarsi nelle montagne, per riuscire a pensare e colloquiare in modo chiaro, senza essere disturbati dall’“industria culturale” della pianura. Con Bivacco volevo creare un safe-space: uno spazio per riflettere e per parlare.
Anche se la curatela è affidata alla Direttrice di Merano Arte Christiane Rekade, tu, in quanto artista, hai anche avuto un ruolo organizzativo, come spesso accade nelle pratiche artistiche più recenti. Sei interessato a contaminarti col ruolo del curatore?
Non ho un’idea precisa sul ruolo dell’artista e/o del curatore. Mi interessa principalmente il progetto e, alle volte, fa parte della mia pratica artistica anche il ruolo organizzativo, soprattutto nei progetti complessi, che richiedono tempo e spesso anche tanta sensibilità diplomatica. In generale mi sento un artista concettuale: tutto parte da un’idea, che poi cerco di rendere reale.
Se sulle Alpi il bivacco è uno strumento di sopravvivenza minima che aiuta a connettere area mediterranea e Mitteleuropa, spostandolo a Venezia, con la sua storia, potrebbe acquistare il ruolo di cerniera tra oriente e occidente o tra Nord e Sud del mondo. Ti piacerebbero venissero sviluppate queste direttrici geografiche nel progetto?
Certo. Il Mediterraneo è una cerniera, come le Alpi sono una cerniera. Il progetto tratta in modo molto concreto della realtà alto-atesina, come luogo di transizione. Parlando di quella realtà esistente è come se si parlasse anche di tutti gli altri luoghi che fungono da snodo e collegamento.
La stessa Rekade allude a uno spazio che supera le limitazioni architettoniche temporanee del rifugio per ambire a essere microcosmo e spazio di pensiero universale. Trovo questo aspetto molto interessante nell’elemento anche surreale di trovare una struttura così decontestualizzata su una remota isola lagunare…
Christiane Rekade ha sempre inteso il bivacco come un UFO: una struttura aliena, arancione, che arriva da un altro luogo, estranea all’area circostante. Per lei la sfida era quella di allestire una mostra con sette artisti (Jacopo Candotti, Nicolò Degiorgis, io stesso, Julia Frank, Simon Perathoner, Leander Schönweger e Maria Walcher) in uno spazio così ristretto e particolare. Entrando nel bivacco ci si trova in un altro mondo, un mondo estraneo, che è comunque difficile da raggiungere e che svela lentamente i suoi contenuti.
Quali processi speri vengano attivati con questa iniziativa e come verrà animato Bivacco nel corso dell’apertura?
Spero tanto che i visitatori colgano il messaggio del progetto, leggendone le varie sfumature e interpretandolo a modo proprio. È un lavoro, questo, che mi sta molto a cuore. Ad animare Bivacco, oltre alle altre opere in mostra, c’è anche un mio lavoro audio-performativo, potenzialmente attivo in ogni momento, che i visitatori possono ascoltare scannerizzando un QR-code. Il lavoro rende l’ascoltatore un performer che, seguendo delle istruzioni, interpreta cento anni di storia di un territorio cerniera e transito tra l’area mediterranea e l’Europa centrale. Altre attività che svolgeremo saranno un’escursione nella Valle di Vizze (BZ), dove originariamente si trovava il bivacco, degli artist-talk e la presentazione del catalogo.
– Gabriele Salvaterra
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