Morbide, ambigue, deformate. Le ceramiche di Miquel Barceló a Faenza
MIC, Faenza ‒ fino al 6 ottobre 2019. Su grandi tavoli di legno, come quelli dell'atelier, sfilano forme morbide che da lontano sembrano vasi “sbagliati” e da vicino rivelano forme antropomorfe; e poi il grande muro, le teste di animali, i pesci e i filosofi. Un universo visionario che nasce dalla terra, materia prima della ricerca ceramica di Miquel Barceló.
È Borges a dare il titolo a una parte della mostra di Miquel Barceló (Felanitx , 1957), allestita al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza: Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume. Per la prima volta in assoluto, l’artista – ritenuto uno dei maggiori pittori spagnoli fin dalla sua partecipazione a Documenta di Kassel nel 1982 – espone esclusivamente le ceramiche, di certo affascinato dall’istituzione faentina che da sempre accoglie, studia e mostra i più prestigiosi manufatti realizzati a partire dall’argilla e dal fuoco. E in questo tempio della terracotta & co. l’artista spagnolo non si è accontentato del pur vasto spazio destinato ai progetti temporanei: per cominciare a visitare la mostra è infatti necessario salire al primo piano e addentrarsi alla scoperta del dialogo instaurato fra le antiche ceramiche prodotte in loco e i lavori contemporanei.
BARCELÓ E LA CERAMICA
Dopo aver affrontato The Wall – un muro composto da autoritratti incorporati in un tessuto di mattoni forati –, al centro dei lunghi corridoi che da sempre ospitano le vetrine con le collezioni permanenti si trovano ora anche dei tavoloni in legno grezzo che replicano quelli originali dello studio maiorchino di Barceló e sui quali scorre, in “un fluire dove la storia della ceramica si unisce alla storia dell’artista, alla sua rappresentazione” (Irene Biolchini), una lunga teoria di vasi forati, collassati, sformati, crepati, riempiti di frammenti. Del resto, quando agli inizi degli Anni Novanta per la prima volta l’artista cominciò a lavorare la terra nei laboratori dei vasai del Mali, imparando una tecnica ancestrale e impastando argilla, sterco di mucca e cammello, paglia e cocci rotti, non aveva certo intenzione di prepararsi a produrre dei semplici contenitori. “L’artista elabora un vocabolario plastico tridimensionale che esalta i temi presenti nel suo prolifico immaginario: ritratti e autoritratti, maschere, nature morte, frutti, legumi e pesci” (Cécile Pocheau Lesteven), oltre a teschi e vanità, come dimostra il suo primo lavoro in ceramica realizzato con la tecnica dogón, il Pinocchio mort del 1994.
PITTURA E MATERIA
Le installazioni più grandi, raggruppate per temi che spesso hanno a che fare con gli affetti familiari o con i topos della cultura spagnola – su tutti, la tauromachia e l’inevitabile ricordo di Picasso –, trovano accoglienza nell’ala del museo riservata alle mostre temporanee.
In molte opere la presenza della pittura prevale quasi sulla materia, come in 7 Peixos, Pans i Cap de Boc, o come nella serie dei Neri. Altre volte è la lettura simbolica – non esente da una spiccata ironia – a balzare immediatamente all’occhio, e valga ad esempio il caso dei Filosofi, strambi ritratti di Kant, Nietzsche, Simone Weil ecc., che scaturiscono da vasi come se fossero fiori (ma il pensiero corre anche ai canopi egizi ed etruschi). Quell’antico processo secondo cui le forme classiche della ceramica, grazie all’intervento dell’artista, assumono un nuovo significato e diventano personificazione dell’uomo, dei suoi desideri e dei suoi corrispettivi animali, nelle opere di Barceló si veste di abiti contemporanei e contiene in sé le tracce di un’estetica espressivo-gestuale che deriva senza dubbio dalla sua pratica pittorica.
‒ Marta Santacatterina
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