La galleria torinese GRGLT diventa nomade. Il fondatore ci ha spiegato il perché
Giorgio Galotti, che nel 2015 ha fondato la galleria GRGLT, mette radicalmente in discussione la funzione stanziale dello spazio espositivo. A partire dai prossimi mesi, le mostre saranno di volta in volta in una location differente, scelta in collaborazione con gli artisti coinvolti.
“Dopo un lungo viaggio, alle soglie del 2020, lo spazio statico della galleria sembra esser diventato anacronistico, perciò dopo alcuni interventi esterni che avevano l’obiettivo di sperimentare nuove vie di presentazione degli artisti, dal prossimo autunno l’intero programma della galleria diventerà nomade”. Così Giorgio Galotti, fondatore della galleria Torinese GRGLT, annuncia il profondo cambiamento identitario della propria attività. Una decisione che vuole aderire ai tempi che mutevoli, alla fluidità che domina il mondo dell’arte e mette in crisi lo stesso concetto di “galleria”. Come abbiamo riportato in alcuni approfondimenti (anche qui), infatti, la crisi economica ha avuto numerose conseguenze, come l’allargamento della forbice tra le grandi gallerie globali – oggi con un piede a Hong Kong e uno a New York, oltre ad altri punti strategici – e quelle di ceto medio, soffocate in alcuni casi dall’impossibilità di coniugare ricerca artistica e auto sostentamento. GRGLT, che è nata nel 2015 a Torino e ha collaborato nel tempo con artisti quali Ettore Favini, Thomas Kratz, Andrea Magnani e Anders Holen, si troverà in un luogo ogni volta diverso, pensando a un progetto specifico con ogni artista coinvolto. Ce ne ha parlato Giorgio Galotti.
Quali sono i fattori che ti hanno spinto a intraprendere la strada del nomadismo?
Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, restare curiosi e non indifferenti al cambiamento. La nostra generazione è nomade per natura e può lavorare ovunque ci sia una rete Wi-Fi o un hotspot a cui connettersi. A questo aggiungiamo che i galleristi del nuovo millennio già vivono come dei circensi spostando in continuazione opere da un luogo a un altro del pianeta.
Spiegaci meglio.
Per una piccola galleria avere uno spazio statico oggi è controproducente perché implica costi fissi che non portano a ulteriori ricavi, ma anzi sottraggono energie ed economia a produzioni più sensate e obbligano le gallerie a presentare una programmazione spesso ripetitiva. Senza pensare quanto sia limitante per un artista elaborare un progetto nello stesso spazio espositivo già interpretato da altri prima di lui sapendo che il collezionismo cerca opere di facile gestione.
Raccontaci quali pensi che siano i vantaggi di trasformarsi in una galleria senza fissa dimora.
Occupare uno spazio per un periodo limitato e con un progetto specifico vuol dire offrire all’artista la possibilità di essere l’unico a lavorare su quel luogo, al visitatore di essere incentivato a non perdersi la mostra, al curatore di trovarsi di fronte al potenziale espressivo di un artista in uno spazio non adibito a ricevere opere d’arte. E, infine, al gallerista di non cadere in depressione per non aver venduto qualcosa che aveva come primo obiettivo quello di sopperire alle continue spese di manutenzione di una sede fissa.
Ci sono dei modelli a cui ti sei ispirato?
Nessuno, se non aver vissuto sulla mia pelle le reazioni del pubblico di fronte a progetti più ambiziosi che sfruttavano luoghi naturali. Ad esempio, DAMA e Hypermaremma, entrambi nati con l’idea di offrire agli artisti una possibilità di dialogare con la breve o lunga storia di un luogo esistente e trovare una via di bilanciamento con esso.
Come sceglierai di volta in volta la sede e dove?
Il ritmo di questo programma è dettato dal superamento dei limiti di un luogo e non da un calendario che impone una mostra ogni due/tre mesi. Ogni intervento verrà bilanciato con l’artista in base al tipo di ricerca che porta avanti o al tipo di progetto che intende sviluppare. La cosa più complessa sarà probabilmente trovare la disponibilità del luogo che ricerchiamo. Ma questo fa parte dell’identità di un programma itinerante.
Ad esempio?
Con Rachel Monosov stiamo ricercando un vecchio cinema per presentare il suo prossimo film che sta girando in una zona remota della Russia e che in parte dovrà riflettere quelle atmosfere, mentre con Thomas Kratz abbiamo iniziato la ricerca di un appartamento borghese con alcune caratteristiche in grado di ospitare una selezione di opere pittoriche da salotto.
Cosa ne sarà della sede originaria?
Tornerà sul mercato immobiliare ristrutturata e più bella di come l’avevo presa. Resterà attiva la vetrina Alley che continuerà a cambiare in funzione delle stagioni.
Programmi per il futuro? Dacci qualche anticipazione.
Ho tre progetti di mostre in tre luoghi. Quella più definita è la prima personale di Gabriele Silli con la galleria, ma anche l’ultimo progetto ospitato nello spazio di Via Beinasco. Inaugurerà ad ottobre e sarà visitabile fino alla settimana dell’arte. Chi non avrà ancora visitato lo spazio avrà l’ultima occasione per farlo trovandosi di fronte a una scultura organica ambientale pensata per il luogo che la ospita. Le due successive avvieranno definitivamente il programma nomade.
– Giulia Ronchi
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