Le labili tracce della società di massa. Remo Bianco a Milano
Museo del Novecento, Milano – fino al 6 ottobre 2019. Una retrospettiva riporta alla ribalta l'arte ruvida e sardonica dell'artista milanese. Dal precoce spazialismo sui generis degli Anni Quaranta ai “Quadri parlanti”, i diversi cicli di un autore per il quale l'idea vince sulla formalizzazione.
Ennesimo artista frettolosamente rimosso dalla memoria dell’arte italiana del secondo dopoguerra, Remo Bianco (Milano, 1922-1988) viene celebrato nella sua città da una retrospettiva al Museo del Novecento. Più attento all’idea fulminante che alla formalizzazione, a volte ruvido con gusto quasi sardonico, l’artista tratta precocemente l’opera come oggetto sin dagli Anni Quaranta, quando va alla ricerca di uno spazialismo sui generis.
Prima con i 3D, dipinti su diversi strati di vetro, plastica o plexiglas in cui le forme e i colori si sovrappongono e danno vita a organismi complessi e cangianti. E poi con i quadri-scultura traforati, dove a sovrapporsi è il vuoto, ovvero le parti rimosse dalle superfici. I materiali si modificano via via, dal legno alle nuove materie plastiche, per seguire e commentare l’estetica imperante fuori dall’ambito artistico.
FRAMMENTI, CALCHI E REPERTI
La plastica, l’artificio e la società dei consumi (con un tocco di esistenzialismo) sono protagonisti della serie delle Testimonianze: campionari di bambole, giocattoli e altri frammenti del quotidiano racchiusi in piccoli sacchetti trasparenti allineati.
Come a voler congelare una memoria che è di per sé labile: la traccia è in effetti un motivo ricorrente di Bianco, che scrisse il Manifesto dell’arte Improntale. Anche nel ciclo delle Impronte, corpi e oggetti sussistono solo in forma di calchi di gomma o cartone, con la saltuaria irruzione del colore a dare un tocco di allucinato fascino (una certa atmosfera da disastro postatomico aleggia su questi frammenti di memoria). E altri mondi congelati sono quelli degli oggetti sommersi e obliterati da una spruzzata di neve artificiale.
DIALOGHI FILOSOFICI
I Collage sono uno dei frutti del soggiorno di Bianco negli Stati Uniti. In essi, spunti pittorici si mescolano all’idea dell’informazione frammentata e caotica tipica della società di massa. Le Pagode sono invece ispirate all’Oriente, simulando e stilizzando strutture architettoniche “esotiche”; assieme ai Tableaux dorés, costituiscono due passaggi “formalisti” nell’opera dell’autore, meno efficaci del resto.
Ciò che sorprende e affascina tuttora sono invece i Quadri parlanti, nei quali idea e forma vengono a coincidere. Passando davanti a queste stampe fotografiche su tela, lo spettatore attiva una registrazione: la voce dell’autore lo interroga, lo fa ragionare sulla posizione dell’artista nella società, lo ingaggia in riflessioni filosofiche. Un’acuta ironia è l’ingrediente principale di questi quadri “performativi”, insieme allo spiazzamento.
‒ Stefano Castelli
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