Sulla dimensione dello spazio esistenziale #2 (II)
Secondo capitolo del testo critico realizzato da Lucrezia Longobardi in occasione della mostra “Lo spazio esistenziale. Definizione #2” (Fondazione Morra a Napoli, 31 maggio ‒ 21 luglio 2019). Il testo è stato presentato in prima stesura il giorno dell’opening e mantenuto nello spazio come elemento di confronto e discussione con i visitatori, utilizzando il tempo della mostra come momento critico attivo. Il risultato finale che viene qui pubblicato è la forma che lo scritto ha preso nei mesi trascorsi dalla curatrice all’interno del dispositivo abitativo che la mostra stessa costituiva.
“Perdere tempo e per farlo procurarsi un orologio!
Non viene qui prepotentemente alla luce l’inquietante spaesatezza dell’esserci?”
Martin Heidegger
Martin Heidegger è uno dei filosofi che maggiormente hanno guidato questa ricerca, indirizzandola nelle sue prospettive e verificando la correttezza delle proprie traiettorie. Alla sua domanda retorica che qui ho citato non posso che rispondere in maniera spontanea e abbastanza intima, portando la mia personale esperienza sul tavolo di discussione. Ebbene sì. È un’inquietante spaesatezza dell’esserci questa velata dietro l’orologio rotto che porto sempre con me, come se fosse un importantissimo prolungamento della mia persona. È questo orologio rotto che ha dato inizio alla ricerca che porto avanti già da alcuni anni, o meglio, è stato il chiedermi per quale motivo continuassi ad avere al polso un orologio fermo. Gioacchino Belli scriveva che la morte è nascosta negli orologi, “la morte sta anniscosta in ne l’orloggi”. Ma la morte se ne frega degli orologi, gli risponde lo scrittore turco di metà Novecento Ahmet Tanpinar.
È interessante, però, come il tempo diventi un elemento estremamente importante per una serie di intellettuali che nella loro vita hanno dato particolare attenzione all’ironia. E d’altra parte è sempre stata proprio l’ironia a rappresentate l’arma vincente dei mortali contro il destino che ontologicamente (e anche linguisticamente) li definisce. A parte Belli, infatti, in un orizzonte dove la misurazione sembra indispensabile al funzionale andamento della vita, è Luciano De Crescenzo, a venirmi in mente, con un suo film della metà degli Anni Ottanta. Il titolo è 32 dicembre. Girando e rigirando attorno a questo tema, la pellicola finiva per provocare, con strumenti di una semplicità disarmante, la dimostrazione della non esistenza del tempo e quindi lo scioglimento del mistico rapporto di sudditanza sviluppato con esso. L’umorismo, certo, ha una parte in tutto questo, è una parte fondamentale.
In tal senso è forse una chiave essenziale di distacco, di separazione dal coinvolgimento “drammatico” nelle vicende umane, una lente attraverso cui guardare il mondo con lucida disillusione. Ma l’ironia ha sempre la fulminea durata della battuta, così l’umorismo, talvolta amaro, con cui alcuni intellettuali antichi o moderni, osservano la realtà non è da considerarsi un faro che rischiara definitivamente un sentiero, una nuova strada maestra da percorrere all’interno del complesso dedalo di vicoli capillari che costituiscono il labirinto dell’esistenza. Esso più che a una illuminazione assomiglia a un lampo passeggero, non all’accendersi di una lampadina, ma di un flash, qualcosa di talmente rapido e imprevisto da non rendere realmente visibili le cose celate dall’oscurità dell’essere, ma di lasciarne, al massimo, una impressione, un sentimento di presenza. Per il resto, appunto, a farla da padrone è l’oscurità in cui ci rintaniamo, talvolta per debolezza.
TEMPO, CECITÀ E CONTROLLO
In questa oscurità anche il tempo è cieco; al massimo ha dei paraocchi.
Potrebbe essere questa la metafora più stringente per identificare il tempo moderno, con la sua tirannica esigenza di continue prestazioni. A esemplificarlo perfettamente è stato Lawrence Carroll nella sua Alice nel paese delle meraviglie, affidando al Coniglio Bianco il sembiante di una figura che nel Novecento diventerà sempre più sclerotica e che nel XXI secolo, in tempi di connessione senza limiti, è finita per diventare una iperbole dai confini non più definibili. Tanto essa si espande e tanto smette di essere alienazione, finendo per divenire condizione di normalità in seno alla quale un’altra alienazione, per contrasto, si sviluppa. Ed è la condizione del sabotaggio, o dell’autosabotaggio, quella che emerge allora, ossia il sabotaggio che l’individuo opera sul tempo per innescare un processo di dissoluzione che porterà infine il tempo stesso a sabotare, come in una reazione nucleare, tutto ciò che attiene alla sua circostanza personale. Il risultato è quello di essere stralciati dalla realtà. La reazione a catena innescata da un nostro piccolo sabotaggio ironico o filosofico – come può essere, appunto, l’indossare un orologio fermo o, come feci in passato, un orologio rallentato – finisce per rivelarsi un gesto eminentemente politico, sia esso consapevole o meno. Perché politico? Semplice, perché come aveva ben previsto Tanpinar nel 1954, tra le pagine del libro che prima ho velocemente citato, ossia L’Istituto per la regolazione degli orologi, la società contemporanea ha istituito sulla gestione del tempo un vero e proprio regime, la dittatura della connessione e, di conseguenza, la soppressione di ogni spazio libero, deregolato, veramente privato.
Uscirne è possibile solo con una volontaria perdita del controllo, uno sdoppiamento, l’uccisione di quella parte di noi che resta incardinata all’autorità di uno degli assi portanti della realtà, la famosa quarta dimensione. Ma l’uscita da questa dimensione comporta lo sfuggire al paradigma che definisce la nostra identità sociale (che ha forti rifrazioni anche nella costruzione del nostro autoritratto esistenziale). Ciò conduce a una perdita di coscienza (e, conseguentemente, di volontà) dell’individuo. Non si può mantenere, al contempo, la disconnessione da un sistema e una vera e propria autonomia critica. Richiederebbe la forza mentale di un dio. Per cui ci si trova a scorrere in equilibrio su un filo di rasoio che rasenta la follia. È una constatazione estrema, forse, ma estremamente concreta. E assomma casistiche emblematiche e malattie sociali ampiamente condivise come l’hikikomori o la “semplice depressione” a forme di alienazione molto più intime, individuali, varianti infinite di un unico senso di spaesamento – letteralmente sentimento della non appartenenza al proprio contesto di riferimento. Ma, al di là delle sintomatologie più varie o evidenti, il mantenere, come un gatto, la zampa sull’orologio posto al limite del tavolo per farlo precipitare è una sorta di minaccia sospesa, o sarebbe meglio dire di “auto-minaccia”.
‒ Lucrezia Longobardi
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (I)
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