Sulla dimensione dello spazio esistenziale #2 (III)

TERZO CAPITOLO DEL TESTO CRITICO REALIZZATO DA LUCREZIA LONGOBARDI IN OCCASIONE DELLA MOSTRA “LO SPAZIO ESISTENZIALE. DEFINIZIONE #2” (FONDAZIONE MORRA A NAPOLI, 31 MAGGIO ‒ 21 LUGLIO 2019).

Nel momento in cui la minaccia si compie, si getta la clessidra dal tavolo e la si infrange. Ciò che ci assale è il sentimento del “fuori”, del “fuori tempo”. Ed è qualcosa di radicale. In realtà andrebbe definita una differenza essenziale fra sentimento e cognizione/consapevolezza del “fuori”.
Il sentimento, nella sua sordità, è qualcosa che può accompagnare per anni o decenni la lenta deriva di qualcuno, iniziata magari dimenticando (volontariamente o meno) di ricaricare l’orologio, mantenendo all’atto di sovversione un sapore dolce, una sfocatura dei contorni che maschera la progressiva o cronica separazione della propria rotta dalla corrente della realtà. Il raggiungimento della cognizione, di contro, ha il sapore dello strappo, dello squarcio nel velo di Maya, di allucinata convinzione in quello che abbiamo sempre immaginato come invalicabile, di un risveglio non all’interno di una dimensione organizzata e funzionale, ma in una sorta di camera bianca.

Lo spazio esistenziale. Definizione #2. Installation view at Fondazione Morra, Napoli 2019. Photo Amedeo Benestante

Lo spazio esistenziale. Definizione #2. Installation view at Fondazione Morra, Napoli 2019. Photo Amedeo Benestante

Tale luogo non ha nulla a che fare con i white cube museali, spazi organizzati secondo una ratio e progettati perché ogni cosa venga esposta con chiarezza e neutralità. Esso assomiglia di più alle stanze imbottite delle prigioni o dei vecchi manicomi. Ambienti privi di stimoli e capaci di rimbalzare ogni pensiero-azione. La qualità del tempo propria di questi luoghi dell’essere è pulita da tutto, sterile, completamente priva di respiro. Tali spazi della mente sono estremamente calmi, nicchie in cui poter rintanare corpo e anima prendendo rifugio dalla realtà circostante, quella tangibile, attraverso un’immobilità amorfa, una spaventosa immobilità amorfa. Sfilando i paraocchi cui accennavo in precedenza ci accorgeremmo che questo genere di luoghi adorna l’intero contorno dei nostri percorsi. Sono le rive frastagliate delle nostre correnti di riferimento, piene di insenature, di rami caduti che raccolgono altri frammenti di realtà alla deriva, pietre la cui casuale e millenaria disposizione genera mulinelli.
Stiamo parlando del panorama periferico che segue con costanza la corrente principale di scorrimento della vita. Si immagini, appunto, un fiume, che ha un suo corso ed una sua precisa velocità. Due corpi che vi si immergessero a monte, qualora compissero il tragitto in modo netto, ossia senza finire all’interno di queste “pieghe” (o piaghe?) del percorso, potrebbero impiegare lo stesso tempo per giungere a valle. Ma, appunto, proprio da questo semplice esempio ci rendiamo conto che lo stato di eccezione non è determinato dai rallentamenti, dalle stagnazioni a margine della corrente, ma dalla nettezza del percorso. Basta questo per rendersi conto di come il tempo esatto della corrente nei fatti sia una sorta di convenzione, di punto di riferimento che, nei fatti, non esiste. E non esistendo, ovvero esistendo solo come concetto ideale, possiamo dedurne la letterale sterilità. In questo senso si ribalta quanto detto fin ora. Gli unici tempi produttivi sono quelli che misurano la propria dimensione attraverso l’accumulo di momenti morti, di consunzioni, di giri a vuoto nei mulinelli o nelle gore dalla gravità incerta, sfinita dalle sollecitazioni di una corrente che, di tanto in tanto, si riappropria dei corpi e li trasporta verso niente altro che una ennesima sospensione.

Lo spazio esistenziale. Definizione #2. Installation view at Fondazione Morra, Napoli 2019. Photo Amedeo Benestante

Lo spazio esistenziale. Definizione #2. Installation view at Fondazione Morra, Napoli 2019. Photo Amedeo Benestante

Qui, in questi luoghi al margine della corrente, i corpi immersi nella realtà del fiume subiscono le loro mutazioni essenziali. Si legano ad altri elementi, vi crescono alghe o si corrodono per la concentrazione stagnante di liquami pericolosi. E sono questi, dunque, i luoghi che assomigliano a dei crogiuoli in cui prende forma la vita – nella sua imperfezione – e al contempo in cui prendono forma quelle entità che possiamo definire opere d’arte che della vita sono l’estrema sintesi.

‒ Lucrezia Longobardi

LE PUNTATE PRECEDENTI

Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (I)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (II)

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Lucrezia Longobardi

Lucrezia Longobardi

Lucrezia Longobardi è nata nella provincia di Napoli nel 1991. Laureata presso il corso di Grafica d’Arte all’Accademia di Belle Arti di Napoli con una tesi sul concetto di spazio esistenziale e una ricerca storico-artistica su Gregor Schneider, Renata Lucas,…

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