May You Live In Interesting Times. Le opinioni sulla Biennale di Venezia
Cosa pensano critici, curatori ed esperti di mercato – ma anche una Millennial – della Biennale di Venezia curata da Ralph Rugoff? Ce lo siamo fatti dire da loro.
PERICLE GUAGLIANONE – CRITICO E CURATORE
La mostra internazionale è buona. Non ha un vero concept, è una mera compilation (l’impostazione lato A/lato B rimanda in effetti alla musica), ma è ben impaginata e va a incrociare un discreto numero di highlight che non si dimenticano. D’altronde è difficile affrontare quegli spazi con progetti più focalizzati. Ultimamente ci ha provato solo Gioni, con una mostra dal concept stringente, però le proporzioni espositive si dimostrarono troppo ampie, il che produsse esiti in definitiva stucchevoli. Deludenti nel complesso i padiglioni nazionali, spesso ingessati o troppo scenografici, con qualche delusione cocente (del padiglione italiano ho scritto su Artribune nell’articolo Labirinti e distopie).
Suonerà banale ma un dato a favore della mostra internazionale è che in essa trionfa il presente. Sì, perché ci sono troppe mostre in città dedicate a nomi più che storicizzati. Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se negli Anni Sessanta e Settanta si fosse esagerato in omaggi ad artisti di inizio secolo (ormai le distanze temporali sono quelle): immagino un putiferio! Mi espongo: almeno a Venezia vogliamo vedere il presente.
CHRISTIAN CALIANDRO – CRITICO E CURATORE
Nella mostra centrale il display in qualche modo neutralizza la maggior parte delle opere, perché le inserisce all’interno di un discorso già preparato, di un sistema definito e codificato. Anche quelle potenzialmente interessanti, infatti, vengono poste in condizione di non nuocere. Questo avviene naturalmente soprattutto all’Arsenale, dove i pannelli di legno annullano di fatto quasi sempre ogni percezione dello spazio fisico e culturale reale, storico, “rifacendo” la galleria, il museo, a volte addirittura la fiera. Lo stand, in questo senso, è il represso che ritorna.
In generale il racconto, la narrazione complessiva della mostra risulta troppo diligente (la politically correctness c’entra di sicuro, ma non esaurisce la spiegazione). In altri casi, poi, è sembrato che parecchie opere fossero dominate, letteralmente dominate dall’ansia di spiegare – e di essere al tempo stesso parte della spiegazione.
ALFREDO CRAMEROTTI – DIRETTORE DEL MOSTYN DI LLANDUDNO
La mostra ha il merito di aver scosso un po’ le acque in termini di presentazione e display solution. Detto questo, c’è sicuramente una predominanza di arte di grande formato e impatto visivo che non posso esimermi dal notare: è in parallelo con lo sviluppo esponenziale del mercato artistico, specialmente quello secondario. E c’è anche una certa prospettiva curatoriale londinese, direi. Una cospicua maggioranza degli ottanta artisti erano passati da gallerie o istituzioni della capitale britannica. Artisti fantastici, beninteso, ma non proprio sorprese.
A livello concettuale, questa biennale espone una certa maniera del vivere contemporaneo che si posiziona fra il trascinante potere del neoliberalismo e la sua critica più feroce; tra quello che vorremmo “rimettere in carreggiata” a livello di giustizia sociale e inclusione, e quello che poi facciamo per lavoro o piacere, che molte volte non collima con i nostri principi morali. Ecco, credo che Rugoff abbia colto pienamente questo aspetto contraddittorio.
LUDOVICO PRATESI – CURATORE
Un lucido sguardo verso l’abisso. Una mostra coraggiosa e per certi versi assai innovativa, con un numero limitato di artisti tutti viventi, invitati a realizzare due mostre parallele, ai Giardini e all’Arsenale. Molti gli argomenti trattati, che Rugoff enuclea nel suo saggio introduttivo: dal rapporto tra fake e verità al climate change, dall’evoluzione dell’AI alle divisioni socio-economiche del nostro tempo, in una sorta di finestra nel presente aperta verso un futuro dal profilo incerto.
Una torre di Babele del XXI secolo dove si sovrappongono linguaggi, immagini e suggestioni che trovano una sorta di armonia nel caos, un ordine nel disordine dove spiccano soprattutto le opere più dichiaratamente politiche. Penso al film di Kahlil Joseph BLKNWS o 48 War Movies di Christian Marclay, i collage di Frida Orupabo, la videoinstallazione Synchronicity dedicata alla vita degli homeless di Apichatpong Weerasethakul e Tsuyoshi Hisakado e le opere video di Lawrence Abu Hamdan, che avrebbe forse meritato una menzione per il lucido rigore del suo discorso.
ALESSANDRA MAMMÌ – GIORNALISTA
Tempi interessanti che fuggono da tutte le parti, impossibili da governare o rinchiudere in un binario. Rugoff lo ha detto, scritto e dichiarato in ogni occasione. Per questo ha delegato agli artisti il compito di svolgere il tema. Ovvero di toccare argomenti come: cambiamenti climatici, sovranismo, crisi finanziarie, esodi di popoli, costruzione di muri (reali e politici), razzismo, problemi di gender, blackness, white washing, rivoluzione digitale, catastrofi varie e l’intera gamma di distopie e utopie contemporanee.
Per ottenere tanto ha scelto tutti artisti viventi dichiarando così definitivamente morto il Novecento con il suo corredo di maestri venerati e altri misconosciuti. Quei profeti inascoltati che ogni grande manifestazione internazionale si vanta di riscoprire. Ma non qui. Qui ci son solo marinai che guidano vascelli in acque inesplorate, caricando sulle loro barche emozioni e inquietudini di avventori e visitatori.
AZZURRA MUZZONIGRO – ARCHITETTO E CURATRICE
Mentre visitavo la mostra, in particolar modo all’Arsenale, la sensazione che avevo era in un primo momento la noia. Non perché le opere non fossero interessanti, alcune lo sono eccome, ma per la totale assenza di un filo che tenesse insieme un piano di discorso comune. A quale domanda, urgenza, preoccupazione rispondono le opere in mostra? Una traccia la si dovrebbe trovare nel titolo, il cui riferimento è un antico proverbio cinese che allude al fatto che periodi di disordine e conflitto siano più interessanti di quelli di pace e tranquillità.
Ma se il concetto chiave è “interesting times”, senza andare oltre circoscrivendo gli argomenti con chiarezza (e con coraggio), la narrazione risulta debole e l’effetto è la sensazione di una dispersione delle energie: ogni artista si è bene o male fatto una domanda e si è dato una risposta, chi meglio chi peggio. Tuttavia, senza un filo di argomentazione comune, ogni sforzo resta relegato nel suo mondo, senza restituirci un’immagine complessa che sposti il ragionamento, che produca un qualsiasi effetto.
ANTONELLA CRIPPA – ESPERTA DI MERCATO
Il titolo è il primo, grande successo dell’edizione del 2019 della Biennale più longeva e seguita del pianeta. Secondo gli artisti invitati a esporre, i nostri tempi sono effettivamente interessanti. E anche confusi, ottusi, disordinati, liquidi, frammentati, violenti, perversi, glamour, surreali e, tutto sommato, divertenti… La Biennale di Venezia del 2019 sarà ricordata come un rutilante caos. È una Biennale impegnata a rappresentare nazionalità, continenti, generi e identità diverse e il drappello che riflette sull’identità africana e sulle rivendicazioni afroamericane è particolarmente folto; il numero di artiste donne per la prima volta è maggiore di quello degli artisti uomini.
È affetta da gigantismo e in parte market based. C’è chi ha calcolato che un pugno di gallerie rappresenta il maggior numero degli artisti, molti di loro ben in luce ad Art Basel, da Christie’s e da Sotheby’s. Ed è anche per questo, forse, che è piaciuta ai collezionisti e agli art advisor, molti dei quali conoscevano bene gli invitati.
MARLENE L. MÜLLER – STUDENTESSA
La sensibilità al tempo, in un presente di grandi cambiamenti. Resta essenziale prestare attenzione al presente, in continuo confronto con semplificazioni e conformismi che rappresentano un pericolo costante. Nella società di oggi veniamo ininterrottamente proiettati in relazioni immediate, senza interposizioni o filtri. Istantaneità che diventano anche un elemento negativo, in grado di viziare le menti pigre.
Inevitabile come questo, da parte delle nuove generazioni, si traduca in una difficoltà a sforzarsi nello spendere del tempo per comprendere, provocando anche rifiuto nei confronti di ciò che impiega più di brevi istanti a “caricare”. Gli aspetti più superficiali e apparenti diventano quindi un elemento fondamentale della quotidianità. Ciò non ne implica una saldatura esasperata, ma sottolinea un nuovo approccio sviluppato progressivamente nei nuovi contesti del presente. Ne può conseguire una diversa capacità di ricercare velocemente e intuitivamente, che arriva in diverse forme a stimolare la curiosità verso una molteplicità di significati nascosti.
LORENZO TAIUTI – CRITICO D’ARTE E MEDIA
La Biennale rischia di bloccarsi come macchina della visione per un eccesso di successo ed entra nella sua fase più difficile, quella della leadership di centinaia di Biennali nel mondo. Ogni edizione porta nuove nazioni partecipanti, nuovi padiglioni e nuove sedi sparse in tutta la città. Cosa bellissima che riafferma l’utopia di nascita della Biennale come luogo dell’Arte Universale, e che crea nuovi rapporti culturali fra nazioni. Tutto si è fatto per infrangere muri culturali e chiusure nazionali: smobilitazione dei padiglioni, scambi relazionali fra nazioni diverse fra loro, giochi di squadra per fornire ottiche globalizzate.
Il problema che si presenta oggi è la dispersione, la difficoltà di aggregare dati di conoscenza indispensabili per una lettura delle opere. Il risultato è l’impossibilità di vedere la mostra in meno di venti giorni, anche avendo fatto delle preselezioni. C’è bisogno di definire dei metodi, di snellire, di creare percorsi o di razionalizzarli, dare insomma il tempo di “vedere”.
ALDO PREMOLI – TREND FORECASTER E SAGGISTA
Nel kit che la Biennale destina ai media, Rugoff è curiosamente presentato come direttore della Hayward Gallery di Londra, già direttore artistico della Biennale di Lione, senza un cenno alla sua formazione. Perché Rugoff è newyorchese, si è formato alla Brown, università famosa per sfornare élite lontane dai “valori” espressi dal Presidente con il ciuffo arancione. Pure le scelte della Giuria – Leone d’oro ad Arthur Jafa, menzione speciale a Otobong Nkanga, sommata al Leone d’oro alla carriera assegnato a Jimmie Durham – confermano una speciale sensibilità.
Nella selezione operata da Rugoff, una venatura emerge evidente. “Molte delle opere esposte in questa sede affrontano le tematiche contemporanee più preoccupanti, dall’accelerazione dei cambiamenti climatici alla rinascita dei programmi nazionalisti in tutto il mondo, dall’impatto pervasivo dei social media alla crescente disuguaglianza economica”. Durham ha militato nei movimenti per i diritti civili negli Anni Settanta. Jafa è figlio di una black panther da cui ha ereditato una visione radicale. Nkanga descrive il paesaggio della sua terra d’origine come un corpo devastato da sporchi interessi neocoloniali.
– Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #50
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