Gli artisti e la ceramica. Intervista a Nero/Alessandro Neretti
Quello fra la ceramica e gli artisti è un rapporto dalle tante sfumature. Stavolta a parlarne è Nero/Alessandro Neretti.
Nero/Alessandro Neretti (Faenza, 1980), lavora fin da giovanissimo con la ceramica che, negli anni, ha affiancato a fotografia, assemblaggio, video. Attento osservatore dei processi socio-politici ed economici, associa un costante lavoro di auto-fiction a una rielaborazione dei simboli contemporanei.
Fin dai tuoi primi interventi hai lavorato molto con il calco, con la copia. Il confine tra copia e realtà sembra essere rimasto al centro della tua ricerca. Come si è evoluto negli anni? E come, invece, è rimasto fedele a se stesso?
L’idea è (era) quella di una connessione con il passato, con la memoria, con il volume. Tutto iniziò realizzando lo stampo di un bambolotto; cominciai a mescolarlo con altre forme per alterarne il significato, per creare un linguaggio che potesse addomesticare un giovane me. Col tempo, dalle piccole composizioni sono passato a forme sempre più grandi per negarle, squassarle, bucarle, reciderle. Ora come allora (fine Anni Novanta/primi Duemila), le fughe che l’argilla cerca nello stampo di gesso restano visibili nelle sculture e sono un innegabile segno di distinzione del mio lavoro, che collega la terra alla scultura, la forma alla materia, il concetto alla memoria. Ripenso al passato per trasferirlo nel mio tempo.
Per quasi vent’anni sei stato “nomade”, intendo cioè senza uno studio fisso, ma adattando sempre la produzione ai diversi luoghi in cui esponevi. Come è nata questa pratica? E come si è riflessa nel tuo “fare”?
Corretto o quasi. Non ho mai avuto uno studio da produttore della materia ceramica; essendo nato a Faenza, ho sempre pensato che una scelta di questo tipo mi avrebbe relegato in quella, che per me, rappresenta una scomoda posizione di “proprietario di una bottega” e ciò si traduce in troppi limiti, troppi vincoli. Mi sono sempre lanciato nelle residenze convinto che il mio lavoro si nutra di quelle esperienze che diventano immancabilmente lezioni di antropologia, di tecnica, di rilettura dell’economia, di storia, infiltrandosi dentro di me fino alle ossa.
Quindi dove hai vissuto negli ultimi anni?
Per diciotto anni ho avuto base a Faenza, in spazi architettonicamente precari. Negli ultimi sei mesi anche senza acqua e corrente elettrica (una grotta contemporanea), sempre in bilico verso la rovina. Questo mi ha permesso di sviluppare un particolare senso nell’osservare le cose, nel percepire nuove possibilità produttive. Recente esempio è il manifesto scelto da Opera Viva Barriera di Milano promossa dalla fiera torinese FLASHBACK. L’immagine “all the things that we need” è stata scattata durante una residenza presso l’Ege Univeristy di Izmir (Turchia) nel 2015 ed è il chiaro esempio di come la mia modalità produttiva sia fluida. Il mio modus operandi è sempre nuovo perché da tempo e con costanza rinnovo un patto fatto a me stesso, una scelta pregressa che sta alla base di tutto: esaminare, concepire, fare con quello che ho, inventando soluzioni che rivoluzionino la percezione. Per molti il medium diventa un limite, una affezione che diviene gabbia. Per me il medium non è altro che una nuova esperienza con la materia, un cortocircuito dove tocco i cavi con la lingua.
Dove ti ha portato la tua precarietà?
La mia costante precarietà mi ha imposto di cercare spazi alternativi che potessero ospitare un homeless (sempre più legato alla progettazione e sempre più lontano dal lavoro di studio) come capannoni, approdi di fortuna, parcheggi coperti di centri commerciali e luoghi sacri come La Bottega Gatti di Marta e del “Gattone” Davide Servadei. Nel 2008 ho compreso che non aveva più senso il lavoro in studio/di studio, non aveva senso produrre opere che andavano poi collocate in spazi senza possibilità di alcun dialogo. Il risultato sono progetti realizzati da un dialogo costante (architettura, storia, committente, spazio, territorio, società, economia, tempo…) che hanno, per mezzo di questo dialogo, una forza narrativa disarmante.
“Do what you can, with what you have, where you are”, diceva Theodore Roosevelt.
Da ormai un anno hai però “messo radici” e lavori in maniera stabile in un territorio. Cosa ti ha fatto scegliere il Veneto come sede operativa?
Su questo devo dissentire. Dopo anni ho uno studio abbastanza capiente da poter mostrare grandi opere e progetti ma non considero la mia produzione stabile e legata a un territorio, morirebbe la mia idea di ricerca e condivisione. Forse è più corretto dire che il mio archivio è a Schio e che lì avete buone possibilità di trovarmi.
Detto questo ti spiego perché ho scelto il Veneto:
Avevo bisogno di proteggere venti anni di archivio e necessitavo di uno spazio per mostrare grandi installazioni.
Trasferendomi all’estero non avrei potuto sostenere le spese di un epocale trasloco e, non avendo nessuno in Italia a cui affidare il mio archivio, la scelta è stata di restare nel mio Paese.
In questi vent’anni mi sono spostato e ho viaggiato per produrre le mie opere e molte spesso mi sono fermato in Veneto.
Mi piace lavorare nelle grandi città ma a mio avviso la vita di tutti i giorni ha bisogno di altri ritmi. Per questo ho nuovamente scelto la periferia, la stessa distanza da Milano (termine di paragone univoco per i benpensanti dell’arte) ma circondato da Vicenza, Verona, Rovereto, Trento, Padova, Venezia, Bassano del Grappa… il tutto in una cornice naturalistica estremamente piacevole. Le mie radici sono nel mio cuore e nella mia testa.
Nel 2013 hai vinto la sezione “under 40” del Premio Faenza ‒ il più longevo premio dedicato alla ceramica nel nostro Paese. Lo scorso giugno hai vinto invece il Premio di Grottaglie, che, con la curatela di Lorenzo Madaro, ha visto una nuova apertura verso la ceramica d’arte. Altri e numerosi sono i premi a cui hai partecipato nel corso degli anni, specie in Oriente. A fronte di tale esperienza, come hai visto cambiare lo scenario dei premi ceramici in questi anni (in termini di presenze e di tipologia di pezzi presentati)?
Ho vinto il Premio Faenza con una grande installazione, I nuovi apostoli ovvero paesaggi economico-strutturali, (composta non solo da ceramica ma anche da legno e carta), che all’interno del Premio Internazionale della Ceramica d’arte Contemporanea e del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza ha sconvolto i canoni delle opere fino a quella data presentate, della collezione, del concorso stesso, costringendo gli organizzatori a modificare il bando dell’edizione successiva. Quest’anno a Grottaglie, con l’opera Mediterranean Meditation ‒ realizzata a Gozo (Malta) in collaborazione con Spaziu Kreattiv, Valletta Culture Capital 2018 e con l’aiuto dei fratelli Franco “Pugnetto” e Lorenzo “Secchezza” Zanovello della Stylnove ‒ ha sconvolto nuovamente le regole prestabilite portando alla vittoria un video, legato a un periodo di ricerca durante una residenza.
Entrambi i progetti erano e sono tutt’ora delle materializzazioni delle mie visioni, immaginati, scelti, voluti, costruiti e presentati al pubblico come punto di vista singolare e condiviso, pronto per innescare nuovi dialoghi. A dire il vero non ti so dire con esattezza come sono cambiati i premi durante gli ultimi anni, ma, senza paura di essere smentito o timori, posso affermare che la ceramica d’arte, come tu la definisci, è la più stuzzicante puttana del sistema contemporaneo italiano e internazionale (lo affermo da tempo) e questa rubrica ne è, a suo modo, un po’ la prova.
In occasione del Salone del Mobile hai prodotto un lavoro molto complesso, lavorando in stretta sinergia con un partner, un’esperienza che hai ripetuto anche recentemente a Biella. Come procedi nello sviluppare queste sinergie con l’industria?
Da una decina d’anni condivido diversa parte della mia progettazione con le aziende (anche il Premio Faenza sopracitato entra in questo tipo di rapporto, grazie alla collaborazione con Florim), una visione industriale del manufatto ceramico, dopo gli studi legati alla produzione industriale, fa parte del mio DNA. Le modalità di collaborazione e condivisione con l’industria cambiano continuamente, come obbiettivi, dialogo, spazi…
Nel 2008 al PAC di Milano presentavo la mostra Le ossa del cane nel cuore, dieci anni dopo Davide Muccinelli mi ha invitato a realizzare il progetto Ceramic Universe per il Gruppo Romani, un doppio progetto che si divideva tra Mother Nature realizzato in Via Solferino e Planet Earth all’interno degli spazi di Casabella laboratorio. Ringrazio ancora Davide perché nessuno spazio milanese mi aveva aperto le porte (e qui dovremmo, credo, riflettere tutti su una cerchia dell’arte italiana sempre più stretta e chiusa in se stessa per cui i privati ‒ non parlo di gallerie ‒ riescono a essere più lungimiranti, meno prevenuti e più sinceramente interessati al percorso pregresso, al progetto singolo, privilegiando la qualità su tutto).
Il recente caso di Biella ha delle dinamiche completamente diverse. Invitato da Irene Finiguerra di BI-BOx a sviluppare un progetto per Palazzo la Marmora all’interno del festival Città di Terre, sono stato io a coinvolgere l’azienda Ceramica Vogue chiedendo di poter sviluppare insieme una buona parte del progetto site specific Inner City/good life, in mostra fino al 13 ottobre.
‒ Irene Biolchini
LE PUNTATE PRECEDENTI
Gli artisti e la ceramica #1 ‒ Salvatore Arancio
Gli artisti e la ceramica #2 ‒ Alessandro Pessoli
Gli artisti e la ceramica #3 ‒ Francesco Simeti
Gli artisti e la ceramica #4 ‒ Ornaghi e Prestinari
Gli artisti e la ceramica #5 ‒ Marcella Vanzo
Gli artisti e la ceramica #6 – Lorenza Boisi
Gli artisti e la ceramica #7 – Gianluca Brando
Gli artisti e la ceramica #8 – Alessandro Roma
Gli artisti e la ceramica #9 – Vincenzo Cabiati
Gli artisti e la ceramica #10 – Claudia Losi
Gli artisti e la ceramica #11 – Loredana Longo
Gli artisti e la ceramica #12 – Emiliano Maggi
Gli artisti e la ceramica #13 – Benedetto Pietromarchi
Gli artisti e la ceramica #14 – Francesca Ferreri
Gli artisti e la ceramica #15 – Concetta Modica
Gli artisti e la ceramica #16 – Paolo Gonzato
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