L’aurora in pittura. Francesco De Grandi a Palermo
La complessa, coltissima pittura di Francesco De Grandi è di scena, ancora una volta, a Palermo. Una raffinata retrospettiva, in corso a Villa Zito, mette a confronto decine di opere con una bella collezione di autori dell’Ottocento siciliano. E qualche incursione seicentesca. Una lezione di storia dell’arte, oltre le epoche e le categorie.
Non era semplice costruire un dialogo tra l’eccellente ricerca pittorica di Francesco De Grandi (Palermo, 1968) e le importanti opere di fine Ottocento custodite nelle collezioni di Villa Zito, una delle sedi della Fondazione Sicilia, a Palermo. L’insidia dell’ingenuità e dell’effetto didascalico conviveva con l’equivoco del citazionismo, dell’otium passatista: nel raffronto diretto con i capolavori di ieri l’immaginario dell’artista palermitano ‒ fedele a una figurazione visionaria, ricercata, intrisa di rimandi alla storia dell’arte – non era in una posizione comoda.
E invece no. La potenza stessa di una pittura che resta clamorosamente contemporanea, proprio mentre guarda all’antico, insieme al tocco sempre colto del curatore, Sergio Troisi, hanno favorito la genesi di una relazione affettuosa e complessa tra le opere, fatta di associazioni naturali quanto sorprendenti, di chiaroscuri, accordi, capovolgimenti. Con le grandi narrazioni e ispirazioni, che uniscono i secoli e gli autori, a darsi come sostanza teorica, poetica, infinitamente rilanciata e rinnovata.
SGUARDO ALL’ORIGINE. IL TEMPO DELLA PITTURA
Quello di De Grandi è un omaggio alle profondità della natura, al sentimento del sacro e all’immensa platea umana che ogni giorno, dal racconto mitologico fino alla cruda cronaca attuale, abita il palcoscenico del mondo. Con tutti i fantasmi, le pulsioni segrete, le folgorazioni e gli abissi, le miserie e le utopie verticali, che di quell’umanità sono forma e nutrimento. Una scrittura drammaturgica distesa lungo un tempo aperto, impossibile da concludere, avvinghiato all’origine e pure diluito tra i mille rivoli della storia: la consistenza pittorica, le attitudini, i soggetti, gli stili, i tagli e le prospettive sono materia sottratta ai secoli, metabolizzata, tramutata in corpo nuovo e vivo. Dai fiamminghi ai romantici, da Pasolini a Tarkovskij, da Meister Eckhart a Bataille, da Ensor a Goya, dai veristi ai simbolisti, dalle distopie fantasy alle nostalgie punk… Francesco De Grandi procede per cortocircuiti, innesti e affinità, celebrando la dimensione alta della pittura, tra misticismo e studium, e così il suo ventre caldo, erotico, brutale.
PAGINE BIBLICHE E STORIA DELL’ARTE
La retrospettiva a Villa Zito attraversa gli ultimi dieci anni di lavoro dell’artista, avendo il merito di rendere subito visibili queste radici robuste, autentiche, oltre ogni accademismo o virtuosismo. Così, in apertura, il folgorante trittico sulla vita di Cristo – in cui la pagina biblica viene traslata in una Palermo cupa, allucinata, senza tempo ‒ articola lo spazio espositivo lungo linee spezzate, tra l’infuocato ingresso di Gesù in città, la sinistra flagellazione metropolitana e il mesto compianto ai confini dell’universo. Sul fondo si svela, quasi a sorpresa, un grande tela seicentesca attribuita a Luca Giordano, dedicata alla vicenda di Giuditta e Oloferne, a voler affiancare Vecchio e Nuovo Testamento, la vendetta e la compassione, il riscatto e la colpa, il gesto esecrabile contro il figlio di Dio e quello disperato contro il truce sovrano.
Ed è quasi cinematografico il cambio di scena, varcata la soglia e trovatisi al cospetto de La Porziuncola (2019), umile e squillante rassemblement zigano-circense, sotto il cielo di un bosco immaginario, accostato all’altrettanto monumentale dipinto di Natale Attanasio, Cucine economiche (1890-91): la schiera di personaggi scandisce qui una malinconica pièce di verità domestica e popolare. Due palcoscenici – uno en plein air, l’altro intimo – figli di due tempi diversi eppure ri-connessi.
DA LOJACONO A LETO, I MAESTRI SICILIANI
La stessa finezza di rimandi si ripete, sala dopo sala, nella carrellata di meraviglie minute o imponenti. Come nel caso di Paesaggio innevato (2014), soffice veduta dissolta in un lucore bianco-aureo, da cui l’occhio rimbalza fino all’altrettanto radioso Campo di grano di Francesco Lojacono (1880-90), breve distesa di terra fertile e di luce estiva, a contrapporre stagioni ma a ribadire timbri, orizzonti, venature. E poi via via altri gioielli del maestro siciliano: paesaggi assolati, scogli, spiagge, specchi d’acqua, cataste di legna in riva al mare, tutti nei toni gentili dell’ocra, dell’oro, dei celesti e dei bruni. E ancora sorprende lo spettacolo impetuoso di Naufragio (2014), con la sbilenca imbarcazione divorata da onde bluastre e nubi di piombo, mentre il sole filtra, scalda e anticipa il miracolo della resurrezione.
È La pesca del tonno di Antonino Leto (1887) a fare qui da contrappunto, nuova scena d’acqua, di schiuma e di concitazione, a cui si agganciano – per contrasto ‒ la dolcezza del Pescatorello di Michele Cortegiani e il verde pastoso della Spiaggia con agavi (1884), anche questa opera di Leto, trapuntato in lontananza dal profilo giallo di una costa. Due piccole immagini, che raccontano invece di un mare cheto, solare, silenzioso.
La morbida pittura di Lojacono torna più avanti a dialogare col tocco fiammeggiante di De Grandi. È una soleggiata Raccolta delle olive (1875-1880) a offrirsi come paesaggio estrovertito di un misterioso oggetto ligneo: se la scatola della serie Mondo Nuovo (2014), quasi un esperimento di pre-cinema, lascia intravedere attraverso un foro un frammento di natura fluorescente nel buio, la tela ottocentesca diventa il miraggio di un segreto rovesciato, il côté diurno di quel boschetto lunare, abilmente sigillato.
NELLO SPAZIO. PITTURA COME INSTALLAZIONE
Un posto speciale è assegnato ai progetti pensati in forma di installazioni pittoriche: una grande quadreria mescola, senza distinzione o cesura, alcuni dipinti della collezione e una folla di opere di De Grandi, tra soggetti sacri, grotteschi, fantastici, naturalistici; nel bosco fittizio verde fluo, ricavato tra il soffitto e le pareti di un’ultima stanza, due preziosi paesaggi su tela sono finestre sul passato, dischiuse nel vertiginoso antro contemporaneo; infine il gabinetto dell’Atlante di anatomia immaginaria ospita un intero artist book, scompaginato lungo le pareti: dalla cover rossa fino alla quarta di copertina si susseguono voracemente fogli, disegni, collage, composizioni grafiche imbevute di riferimenti storici, artistici, letterari. Infinite le ispirazioni da inventare o rintracciare. Dai vecchi almanacchi scientifici fino alle seduzioni mostruose di Witkin, dalle metamorfosi ovidiane alla grazia di certi pionieri della Body Art, dalla classica iconografia religiosa alle perversioni di fiabe futuristiche o primordiali… Una storia sragionata di corpi scorretti, terrestri, stellari, nostalgici, anarchici, utopici, senza organi né gerarchie. Corpi partoriti in una perenne luce aurorale; che è poi quell’Aurea Hora con cui Francesco De Grandi ha battezzato la sua mostra: l’inizio, il tempo primo, l’illuminazione, il passaggio invisibile e difficile che fu, e che sarà, eterno ritorno e verità circolare.
‒ Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati