Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (V)
Quinto capitolo del testo critico realizzato in occasione della mostra “Lo spazio esistenziale. Definizione #2” realizzata presso la Fondazione Morra a Napoli, fra il 31 maggio e il 21 luglio 2019. Il testo è stato presentato in prima stesura il giorno dell’opening e mantenuto nello spazio come elemento di confronto e discussione con i visitatori utilizzando il tempo della mostra come momento critico attivo. Il risultato finale che viene qui pubblicato è la forma che lo scritto ha preso nei mesi in cui la curatrice ha vissuto all’interno del dispositivo abitativo che la mostra stessa costituiva.
UN’ELEGANTE STERILITÀ
Si è già discusso di come l’uscita dal tempo costituisca una controversa circostanza in cui, da una parte si sfugga a una sorta di totalitarismo politico-esistenziale e, dunque, si conquisti una certa libertà, ma dall’altra si fluttui in queste regioni dell’essere, privi di una lucidità dalla tenuta costante, procedendo in una sorta di deriva a malapena vigile, un dormiveglia, una condizione che di per sé richiama una circostanza di sterilità poiché priva di azioni puramente volontarie. Di contro, si potrebbe obiettare che neppure l’azione all’interno di un regime esistenziale imposto o controllato dal tempo sia “puramente” volontaria, invertendo il significato del concetto di azione, con quello più proprio, in questo caso, di reazione – una reazione imposta da ritmi della società in cui viviamo. Ma a parità di involontarietà del gesto, non c’è dubbio che la differenza tra il concetto di reazione e quello di azione riflessiva ‒ che è una possibile definizione del modo in cui si articola la nostra presenza al di fuori del tempo – sia quanto mai evidente. Varrà allora la pena di provare a definire, per quel poco che io stessa ne so, cosa sia questa azione riflessiva, questa articolazione dell’essere al di fuori del tempo.
Da un certo punto di vista, per esemplificare questa condizione, si potrà accostarla a quella del sogno, in cui un’azione è presente, sussiste e, pur non avendo una diretta ricaduta sulla realtà, essa vi ha una certa influenza. Un sogno, nei fatti, è portatore di suggestioni, di stati emotivi che tendono a perdurare anche oltre la sua conclusione, in sonno e in veglia, oltre al fatto che, talvolta, esso divenga luogo d’indagine per materiali sepolti nel recondito dell’essere. Da un certo punto di vista, dunque, il sogno costituisce una circostanza apparentemente sterile in senso diretto, ma incredibilmente feconda in senso indiretto. Si potrebbe forse affermare che saper sognare, ossia mantenere un controllo della propria deriva vigile, del proprio dormiveglia, sia il più alto e funzionale modo di agire in base alla propria essenza.
UN ACQUARIO DEI SOGNI
Calarsi in un laboratorio come quello di questa mostra è quindi nient’altro che immergersi in un acquario dei sogni che abbia tutte le pareti trasparenti, che sia ben in vista e, addirittura, sia accogliente. Ma questo genere di acquari, spazi esistenziali della qualità di quello che in questa occasione sono andata a costruire, esistono in ogni possibile osservatore, visitatore o lettore di questo testo. Sono acque scure, perché le pareti degli acquari privati sono sovente murate, ben chiuse, nascoste allo sguardo altrui. Ma in nulla esse differiscono da quelle che per un tempo determinato io lascerò osservare, forse scandalosamente, nella circostanza intima di questo dispositivo espositivo.
In questa regione di spazio che sono andata istituendo, sarà esposta quell’immersione entro una dimensione dell’essere che è parzialmente sconnessa dall’ordine del tempo. Chi vi si cala, in questo dispositivo pubblico come nei molti privati, si troverà nella condizione di essere un corpo sterile che pure deve cercare di conservare la propria grazia come elemento essenziale per poter dirigere il proprio dormiveglia e strappare al tempo e al regime della sua realtà un margine di verità, un conto di ore e minuti piuttosto ridotto e che sarà, comunque, l’unico tempo in cui si potrà dire d’esser vissuti.
La dimensione di cui parlo è, in modo assai preciso, la stessa che Liz Magor registra nelle sue opere, fermando uno spazio del vissuto, cristallizzandolo in un tempo domestico e interiore estremamente fragile, ma capace di mantenersi costante, di non svanire. Gli oggetti su cui lavora documentano la topografia di una dimensione profonda – in senso psicanalitico ‒ del quotidiano. Le superfici plastiche da lei abitualmente usate inchiodano lì, nel tempo fermo di un’osservazione costante, la grazia minore di un’esistenza. Il corpo dei suoi libri (All the names II, 2014), ormai defunzionalizzati da un materiale inerte e ingombrante, totalizzante, come il silicone che li contiene in un parallelepipedo immobile eppure vibrante, ha le altezze dell’umano che si percepiscono non solo dalle pagine incastrate e non fruibili, ma anche dalla relazione che esse stabiliscono con un soggetto evocato, il padrone del sogno, la cui presenza è, per l’appunto, intrappolata nella fusione plastica come gli insetti nell’ambra. Lo stesso avviene per il tessuto imballato nel cellophane e adagiato su una sedia (Casual, 2012), come nell’attesa di essere riportato all’uso umano, al proprio impiego. L’improduttività, l’incapacità di produrre effetti, si discioglie qui in una “feroce e squisita astuzia per appartarsi” (cit. Giorgio Manganelli in Introduzione a Vladimir Nabbokov, La vera vita di Sebastian Knight, Adelphi, 1992), appartarsi alla vita attraverso un’elegante sterilità. Il momento rivelatorio, quell’illuminazione lancinante e istantanea, forse ironica, cui ci si riferiva in apertura di questo testo, la si ha, però, quando ci si rende conto che i due fogli di cellophane che avvolgono il vestito, apparentemente dimenticato sulla sedia, non sono che anch’essi strati di silicone e che l’abito che dovrebbero contenere non è altro che una macchia di colore, forse non più del ricordo di un vestito, una parvenza della materia umana, o, forse, più propriamente, la materia dei sogni.
COSE DIMENTICATE
È più o meno la stessa dinamica che riesco a osservare nelle piccole sculture denominate Colours del 2008. “Volevo preservare il quotidiano, volevo dare autorità alle cose più dimenticate”, spiega Rachel Whiteread in un video che presenta la grande retrospettiva avuta alla Tate Britain nel 2017. In realtà in questa frase è sulla parola “dimenticate” che cade l’accento determinante. Anche qui ci troviamo di fronte a elementi trasfigurati, sculture in negativo, dai colori neutri, che rivendicano la nobiltà e la bellezza della realtà quotidiana attribuendogli una carica emotiva che esiste soltanto nella dimensione dell’essere, che questi oggetti conquistano divenendo attributi di un contesto interiorizzato. Di quello che più squisitamente, nella prima definizione di questa ricerca, veniva identificato come “spazio esistenziale”. L’esplorazione della dimensione intima di questi oggetti e il loro bagaglio sentimentale è una costante che attraversa tutta la produzione dell’artista. Questi oggetti silenti, murati dal di dentro, non sono più funzionali, e come tali sembrano escludere l’uomo da ogni tipo di contatto. Tuttavia, nella loro nuova natura, diventano monumenti a istanti dimenticati, memoria delle vite umane che li hanno attraversati. L’artista mantiene così alta la vocazione lirica della propria scultura ponendoci di fronte a calchi di parallelepipedi e cilindri che ricordano scatole di tè o panetti di burro e rotoli vuoti di carta igienica, luoghi morti che l’occhio trascura, e che si rivelano invece densi di potere emozionale nella loro gelida ibridazione, spettri di una realtà rimasta appesa a un tempo soltanto nostro e che non provano alcuna vergogna nel ricomparire al momento opportuno, a perdurare oltre sé stessi e anche oltre un ricordo di cui essi, gli spettri, restano unici depositari, con una volontà propria d’esistere, ben oltre la nostra dimenticanza.
‒ Lucrezia Longobardi
LE PUNTATE PRECEDENTI
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (I)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (II)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (III)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (IV)
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