Sulla dimensione dello spazio esistenziale #2 (VII)

Settimo capitolo del testo critico realizzato in occasione della mostra “Lo spazio esistenziale. Definizione #2” realizzata presso la Fondazione Morra a Napoli, fra il 31 maggio e il 21 luglio 2019. Il testo è stato presentato in prima stesura il giorno dell’opening e mantenuto nello spazio come elemento di confronto e discussione con i visitatori utilizzando il tempo della mostra come momento critico attivo. Il risultato finale che viene qui pubblicato è la forma che lo scritto ha preso nei mesi in cui la curatrice ha vissuto all’interno del dispositivo abitativo che la mostra stessa costituiva.

Lo spazio in cui ci siamo addentrati comincia a mostrare la sua instabilità, la capacità di plasmarsi, di modificarsi in modo autonomo e imprevisto, generando una circostanza labirintica che assume morfologie sempre più complesse. Il perimetro, talvolta, è leggero come carta, altre volte solido come il cemento, mutando la propria consistenza con la stessa velocità con cui le nuvole oscurano il cielo e poi lo liberano, in un gioco di ripetizioni infinite che sembrano cadere l’una nell’altra in una catena senza uscita.
Nell’opera di Roberto Cuoghi (Foolish Things, 2002) questo gioco sinistro, nell’impossibilità di stabilire un inizio e una fine, l’atto dilatato, la malinconia artificiale del loop, si ripete ancora e ancora e ancora in una maniacale ciclicità a cui non è possibile sottrarsi e che si basa su uno sforzo reiterato. Il video che anima la casa è l’ennesima disgiunzione tra realtà e percezione dell’individuo, un’ulteriore falsificata salvezza da questo tempo ricercata nel virtuale paesaggio che alterna l’alba e il tramonto senza mai raggiungere il mezzogiorno, e che, con fare ipnotico, col ritmo di un respiro minimo, sembra appiattirsi in una curva temporale dove inizio e fine sono accavallati e non è più possibile discernere le parti. Il suono che produce è quello di una nenia stregata che, nel suo ripetersi, compie l’incantesimo di soggiogare e annullare colui che osserva, portandolo quasi a uno stato di trance, un’altra uscita d’emergenza dal tempo, in un rincorrersi di albori e crepuscoli, la cui fusione rende l’avvicendarsi di vita e morte non più che una vibrazione.

Flavio Favelli, Abissi, 2011

Flavio Favelli, Abissi, 2011

L’orizzonte assoluto che qui ci viene presentato è la menzogna che ci mostra la fragilità di un’idea di mondo che entra in crisi in modo irrecuperabile nel momento in cui si specchia con il sogno. La prospettiva dell’essere produce, allora, paradossalmente, una sorta di resistenza alla potenza di sé, preferendo restare ancorata oblomovianamente alla propria parte debole. Come per il celebre personaggio di Gončarov, il mondo si ridimensiona, si contrae, si rovescia e inabissa. Dal momento in cui siamo finiti nell’incantamento di un luogo fuori dal tempo, anche lo spazio sembra non avere più certezze.
Per poterlo osservare da questa prospettiva, mi avvalgo allora delle mappe, della cartografia di un vecchio ciclo di opere di Flavio Favelli (Abissi, 2011). È un lavoro che sommerge tutto ciò che è conosciuto, tutti i riferimenti certi, per potersi perdere in una vacuità meticolosamente artefatta, volutamente e radicalmente dubitativa. Il planisfero, reso riconoscibile solo dai nomi dei luoghi affioranti dalle acque è, nella sostanza, uno sbiadito schizzo dello spazio d’azione dell’umanità che, tuttavia, è sottratto alla vista da un patchwork di ritagli azzurri che fanno sparire tutto, consegnandoci una superficie integralmente marina che ci porta a domandare se tutto ciò che non conosciamo esista davvero. È una paradossale giustificazione del non agire che finisce per perdersi e distrarsi nell’intreccio affascinante di tasselli d’acqua dalle sfumature più varie, arrivando a diventare un’estremizzazione mondiale della camera bianca della mente in cui potersi rintanare, dove la realtà nominale non chiede di essere confrontata con la realtà fisica.
Posizionato in bilico sul contrasto evidente tra la sontuosa cornice e l’ambiente aspro di una cucina, questo grande planisfero vuoto sembra restituire l’esatta immagine del mondo dalla prospettiva in cui ci troviamo. Come anche Cuoghi, Favelli si serve di un’immagine convenzionale, maledettamente familiare e la sventra completamente davanti ai nostri occhi, ritagliando via la sottile superficie delle cose e rivelando l’abisso che vi sta dietro.

Hèléne Fauquet, Untitled, 2018

Hèléne Fauquet, Untitled, 2018

***

 – Metto il pilota automatico!
 – Ma non mettere niente tanto dovunque andiamo comunque andiamo.
 – È proprio un deserto.
 – E ringrazia che ci sono io che sono una moltitudine.
 – Come dire, un mortorio.
 – Tutto piatto, piatto, piatto, piatto.
 – Sono tre mesi che giriamo e non abbiamo incontrato nessuno. Non ci sta
   niente neanche il basilico, a me il basilico … (inspira con desiderio)
 – Vabbè, dopo quest’ultima amena riflessione, vogliamo ripartire?

Si stendono, si addormentano. (Dialogo tratto dal film Paz! di Renato De Maria, 2002).

La dimensione del dormiveglia, più volte citata in questo testo, da un certo punto di vista è qualcosa di letterale. La fuga dallo spazio-tempo avviene, sovente, proprio attraverso il passaggio obbligato del sonno per accedere al sogno. Questo gesto dell’addormentarsi per sottrarsi al tempo presente e “partire” per un tempo proprio è l’atto con cui ho deciso di “consacrare” lo spazio in cui per circa due mesi ho disposto di vivere. (Durante l’opening della mostra ho dormito nel letto della camera da letto allestita nello spazio, mentre il pubblico si muoveva liberamente per l’appartamento).
A volte, mi viene da pensare che mi addormenterò per sfuggire all’impaccio di una presentazione pubblica in cui se il mio corpo è specchiante non può, al contempo, essere anche esplicante. È una fuga, forse, per ripararmi dalle parole, quelle del pubblico, ma soprattutto le mie. Però, prima di tutto, è, appunto, una sorta di rito; l’immersione nel sonno porta con me a fondo anche tutte le costruzioni che costituiscono la struttura dell’acquario. È il mio sonno probabilmente che allagherà lo spazio. Ma, appunto, il sonno non è del tutto mio. Il sonno è una condizione condivisa, è il portale attraversato abitualmente da molti individui fragili e stanchi, incapaci di reagire alla presenza richiesta, alla dittatura della “prestazione” e che trovano nel riposare una dipendenza salvifica/mortifera. Attraverso una pratica che aiuta il non essere presenti a se stessi mi sono sottratta all’accoglienza dovuta ai miei ospiti, delegando una persona amica al fare il caffè, a offrire un benvenuto prettamente napoletano a tutti i visitatori, quasi a bilanciare la mia presenza dormiente.

‒ Lucrezia Longobardi

LE PUNTATE PRECEDENTI

Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (I)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (II)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (III)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (IV)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (V)
Sulla dimensione di spazio esistenziale #2 (VI)

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Lucrezia Longobardi

Lucrezia Longobardi

Lucrezia Longobardi è nata nella provincia di Napoli nel 1991. Laureata presso il corso di Grafica d’Arte all’Accademia di Belle Arti di Napoli con una tesi sul concetto di spazio esistenziale e una ricerca storico-artistica su Gregor Schneider, Renata Lucas,…

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