L’arte molesta. L’editoriale di Marco Senaldi
Il filosofo Marco Senaldi analizza l’opera di Chuck Close, ora in mostra al MAR di Ravenna, e la sua controversa reputazione. Ipotizzando che dall’arte “molesta” non si debba fuggire, ma guardarla dritta in faccia.
Nella genealogia dell’arte contemporanea persiste una lacuna, un’assenza, una sorta di rimozione – che si chiama iperrealismo. Implicando il ritorno a un linguaggio pittorico (o scultoreo) “elaborato” e virtuosistico, l’iperrealismo è scomodamente difficile da collocare: anzi, esso appare un movimento “fuori dalla storia”, incapace di liberarsi dal fardello della rappresentazione. Il caparbio attaccamento ai valori tecnici del fare arte, alla bontà della “mano”, il partito preso dell’artigianalità sono sintomi (agli occhi di una certa critica) di sprovvedutezza culturale o, peggio, marchio lampante del suo essere “reazionario” – forse il misfatto più imperdonabile per un artista contemporaneo.
Ora, se è difficile definire che cosa sia l’iperrealismo, è ancor più difficile collocare rispetto a esso la figura e l’opera di Chuck Close, tanto più che la sua appartenenza o meno all’iperrealismo è del tutto problematica. Il suo successo, verso la fine degli Anni Sessanta, fu dovuto a degli enormi ritratti, e autoritratti, di chiara derivazione fotografica. L’ingigantimento di una piccola foto, realizzato a disegno, manteneva una definizione visiva davvero impressionante, e aveva al tempo stesso qualcosa di straniante, dovuto all’eccesso di prossimità che il viso trasmette quando è troppo grande e troppo vicino. Più tardi, Close ha affinato ed evoluto la sua tecnica, riuscendo a ottenere lo stesso effetto, abbassando però la definizione dell’immagine – realizzata con piccoli tocchi di colore contrastante che si ricompongono solo se ci si allontana dal quadro fino alla “giusta distanza”. Da quelle opere a dei veri e propri mosaici il passo è stato breve – e ancor più naturale il renderli pubblici: ed è così che sono finiti nella metropolitana di New York, dove costringono il passante frettoloso ad afferrarne la disturbante duplicità visiva in un unico e veloce colpo d’occhio (da oggi in mostra al MAR di Ravenna, in una personale a cura di Daniele Torcellini).
“È la sua stessa arte a essere molesta perché, osservandola, ci sentiamo spiati e quasi offesi da essa: ma è esattamente per questo motivo che dovremmo evitare di sfuggirle”.
Ma l’antico sospetto che l’iperrealismo fosse un’arte volgare perché basata sul “piacere” visivo – quindi un’arte “esibizionista” tesa alla “sopraffazione” del soggetto ritratto – in realtà non si era mai spento del tutto. Quale meravigliosa conferma deve essere dunque stata l’accusa che diverse donne hanno rivolto nel 2017 all’artista: pur condannato alla sedia a rotelle da un malore che l’ha colto trent’anni fa, si sarebbero sentite “molestate” da alcuni suoi apprezzamenti! Finalmente il sottinteso “maschile”, anzi maschilista, dell’iperrealismo veniva a galla – e di fronte a simili accuse non c’è ragionamento critico che tenga: risultato, la retrospettiva attesa alla National Gallery di Washington per maggio 2018 venne revocata senza tante spiegazioni.
Eppure, è evidente che questo caso delle spiegazioni le richiede certamente. Ma quali? Credo che il primo errore consista nel minimizzare la faccenda, con un gesto del tipo: “Ma quali molestie – per due parole volgari, dette da uno in carrozzella!”; il secondo errore, non meno grave, sarebbe invece quello di massimizzare, saltando subito a conclusioni del tipo: “Ma allora Picasso, il seduttore? E Carl Andre accusato della morte di Ana Mendieta? E Caravaggio, pluriomicida? L’arte con la biografia degli artisti non c’entra nulla…” e via sillogizzando. Il primo commento infatti contiene davvero un residuo di insopportabile maschilismo; ma il secondo tradisce una faciloneria mentale forse anche più imbarazzante.
Eppure, la verità sta davanti ai nostri occhi: se si guardassero attentamente le sue opere, dai ritratti degli esordi, come Big Nude del 1967, fino al dagherrotipo (sì, proprio dagherrotipo!) di Kate Moss nuda (2005), letteralmente cristallizzata fin nel più intimo pelo pubico, si capirebbe che Close è colpevole. Ma la sua colpa è artistica, non morale: ed essa non consiste affatto nell’estremamente articolata, stratificata, minuziosa abilità mimetica, ma, al contrario, nella denuncia, estremamente articolata, stratificata, minuziosa – e senza scampo – di ogni possibile mimesi.
VIETATO FUGGIRE
La drammatica e “inaccettabile” verità è che solo uno come Close, dislessico, affetto da prosopagnosia, colpito da paresi, paziente fino all’ossessione, poteva produrre un’arte capace di cogliere un nudo, maschile o femminile, o anche un volto, o un infinitesimo dettaglio, in modo tanto immorale, impudico, indecente – perfino, anzi, ancor di più quando rovescia il cannocchiale e ci mostra che un volto visto da vicino non è che un caos insensato e minaccioso di incoerenti tessere multicolori.
È la sua stessa arte a essere molesta perché, osservandola, ci sentiamo spiati e quasi offesi da essa: ma è esattamente per questo motivo che dovremmo evitare di sfuggirle, rifugiandoci in facili moralismi o in un puritanesimo che, per quanto rovesciato, funziona come quello classico – e continuare a sostenerne lo sguardo.
‒ Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #51
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