Come campano le artiste?

Seconda parte dell’inchiesta iniziata sul numero 48 di Artribune Magazine, per raccontare le forme di sostegno agli artisti. Questa volta guardiamo all’universo femminile, dando voce alle sue protagoniste.

Scena da una fiera d’arte. In uno stand è esposto un lavoro a firma di una raffinata artista del Novecento. Alla richiesta di informazioni, il gallerista risponde: “Non sai quanto ho dovuto lavorare per portare avanti la sua ricerca. Sai, prima era diverso, se proponevi a un collezionista di acquistare il lavoro di un’artista donna poteva capitare che questi ti rispondesse: ‘No, non è un investimento sicuro. Poi fanno i figli, abbandonano la carriera, e chi s’è visto s’è visto’”. Un’affermazione che oggi probabilmente lascerebbe interdetti e che porta alla mente una domanda: quante donne hanno dovuto abbandonare l’idea di una carriera artistica per mancanza di credibilità?
Consultando gli annali della Biennale di Venezia, si nota come sia scarsissima la presenza di artiste dall’anno di Fondazione, il 1895, fino agli Anni Cinquanta, con ancora più sporadiche apparizioni fra i premiati (spesso nomi che la storia dell’arte non ha saputo preservare). È nel 1968 che un’artista come Bridget Riley riceve – in un anno di totale svolta per il mondo intero – un riconoscimento importante in Laguna.

LA QUESTIONE DEL RICONOSCIMENTO

Oggi sicuramente le cose sono cambiate. Le istituzioni sono attente al riguardo e senz’altro anche a livello di percezione collettiva si sono fatti passi in avanti; rimanendo a Venezia, la Biennale ha premiato artiste come Marina Abramović, Pipilotti Rist, Agnes Martin, Louise Bourgeois, la compianta Marisa Merz e così via. In Italia, figure come la Merz o Carla Accardi hanno segnato il tempo e lo spazio.
Ma in tema di riconoscimento (sollevato anche nell’inchiesta, sempre su queste colonne, sul tema del #MeToo nell’arte) e a livello di mercato, come si percepiscono le artiste oggi? “Ho ricevuto diverse volte dei complimenti per i miei lavori da persone che, non conoscendomi e leggendo il mio nome che non dà riferimenti di genere, li trovavano così coraggiosi da non pensare che potessero essere stati dipinti da una donna”, racconta Aryan Ozmaei, artista di Teheran residente in Italia. “Non so se questo complimento mi avrebbe dovuto far piacere od offendermi. C’è un problema di riconoscimento delle donne in generale. Delle loro capacità e dei loro talenti. Ci sono dei pregiudizi che solo le donne devono superare per avere un riconoscimento. Questa stessa domanda non viene mai formulata al maschile, e questo ci fa capire che un problema esiste”.
Non che i colleghi maschi se la passino sempre meglio: come abbiamo raccontato nella precedente puntata di questa inchiesta, le tematiche legate al sostegno, alla famiglia, alla costruzione di una carriera sono nevralgiche per tutti; per le donne resta però un punto di domanda per ciò che concerne la questione del riconoscimento. E non riguarda solo il mondo dell’arte “Se la professionalità femminile è generalmente sottostimata almeno quanto quella degli artisti in generale”, spiega Eva Frapiccini, “la somma dell’essere donna e artista non può che essere un fattore di discriminazione. L’ambito artistico non ne è esente perché è composto da persone, ed esse sono culturalmente soggette al loro contesto geografico”.

MOSTRE AL FEMMINILE E QUOTE ROSA

Perché non facciamo una mostra al femminile?”. Sono domande che spesso si sentono pronunciare nei discorsi che precedono la costruzione di un progetto. Senza voler mettere in discussione la buona fede di chi le pronuncia (uomini, per la maggior parte) queste frasi lasciano intendere una separazione fra arte “maschile” e arte “al femminile” (e questo “al” è tutto un programma), in un settore in cui la forza lavoro femminile ha comunque una grande importanza.
Stando al rapporto Symbola Io sono Cultura 2019, le donne rappresentano il 37,4% dei lavoratori del Sistema Produttivo Culturale e Creativo. Le imprese femminili rappresentano invece il 18% del Sistema, con maggiore incidenza nei soggetti impegnati nel patrimonio storico-artistico. Numeri da incrementare, ma che danno l’idea di uno scenario interessante. Il tema delle pari opportunità resta però fondamentale. Sempre il rapporto Symbola informa che la città di San Francisco sta aprendo un grande parco di arte pubblica, con la condizione che il 30% delle opere dovrà essere a firma di artiste donne.
Ma è necessario porre addirittura delle clausole? “È qualcosa che ho riscontrato sulla mia pelle”, ci dice Elena Mazzi. “In primis, la maternità è vissuta come un problema in qualsiasi ambito lavorativo, anche in quello artistico. Alle donne sono sempre riservate meno opportunità, e non lo dico perché sono donna, basta guardare i dati statistici (vittoria di bandi, inviti a grandi mostre, insegnamento ecc.). Parlando dell’argomento con molti colleghi, sia artisti che curatori, in Italia e all’estero, alla domanda ‘Perché non scegliere una donna stavolta?’ o ‘Vedo nella tua selezione molti artisti e poche artiste, perché?’, svariate volte ho avuto come risposta: ‘Con le donne è più difficile lavorare’. Non mi voglio addentrarmi nei dettagli, perché vanno solo a rafforzare determinati stereotipi che non condivido, ma sicuramente questa è una problematica da affrontare”.

Laura Cionci, Sono a casa, 2019

Laura Cionci, Sono a casa, 2019

IL TEMA DELLA NOSTALGIA

Il mondo dell’arte – ma anche quello della cultura in generale, della politica, e la società stessa – vive in uno stato di fascinazione per il secolo scorso e per la produzione culturale che ne è conseguita. Ma se è vero che in quei decenni, certo eroici, si sono costruiti i presupposti per il contesto (peraltro non ancora risolto) in cui viviamo oggi, e se è vero che, senza le radicali lotte portate avanti dalle donne delle generazioni precedenti, questo movimento di idee non sarebbe in svolgimento, è anche vero che tale passato tanto vagheggiato segue il filo conduttore di una egemonia di sguardo maschile, che spesso filtra le immagini della donna stessa o della famiglia.
Ma se questo tanto bistrattato presente offrisse l’opportunità di uno spostamento dell’asse in direzione di una visione dell’arte femminile? Per essere precisi: non di un’arte fatta da “donne artiste”, termine che, come sottolinea Liliana Moro, segna l’inizio di una discriminazione, ma da artiste punto e basta. “Sono convinta che, per quanto riguarda l’aspetto femminile, non solo nel mondo dell’arte, ci saranno dei decisivi strappi e che i pensieri che si stanno formando adesso saranno sicuramente confermati e ben sviluppati in futuro nelle prossime generazioni”, commenta l’artista Laura Cionci. “Ancora c’è molta strada da fare, ma sento la necessità di continuare a dire che la costanza e la determinazione faranno la differenza alla fine del percorso. In una società dove tutto viene ingoiato alla velocità della luce, non ci resta che resistere e continuare a reiterare quelli che sono i principi dell’archetipo femminile, non solo rispetto al mio sesso, ma a tutti. Continuare a portare i messaggi nella forma più femminile possibile. Una forma che possa contenere, nutrire e dare al prossimo. Se la forma di fare arte prendesse definitivamente questa piega, lo stesso sistema si troverebbe a essere per definizione femminile, lasciando spazio così a tutte le forme dell’essere, di qualunque genere. La distinzione c’è ancora perché è innestata nella modalità di pensiero, nella struttura mentale di tutti, qualcosa di verticale, fallico e materiale”.

MATERNITÀ E FAMIGLIA

In un mondo in cui gli artisti sono spesso costretti a viaggiare e a muoversi per residenze, progetti, mostre, periodi di studio, bandi, conferenze, il tema della famiglia e della gestione dei figli si fa ancora più complicato. Lo dice chiaramente un’artista come Francesca Grilli, ma lo spiega in termini non differenti anche Elena Mazzi, come si legge poco sopra.
Laura Cionci riporta invece la questione sul tema della credibilità e del riconoscimento: “Non credo affatto che, se una donna decide di diventare madre, perda il filo del suo lavoro o della sua ricerca, anzi si arricchisca. Questo non dipende dalla quantità di mostre che fa, ma dalla qualità. Sembra una frase scontata ma credo ci sia bisogno di ricordarla, soprattutto ora che siamo travolti dalla bulimia degli eventi artistici fine a se stessi. Crediamo nella ricerca, in quella ricerca che prende un’intera vita, che diventa appunto una missione per l’artista, crediamo nella sana visione di un lavoro che serve allo sviluppo collettivo, crediamo nell’artista che genera sinergie, che fa rete e che prende forza dalle esperienze dei territori, dalle differenti culture, dalle mille forme di immaginare che ha ogni essere umano. L’artista è un veicolo che rende visibile l’immaginario collettivo, nel migliore dei casi un immaginario futuro, una predizione, una spinta verso qualcosa di migliore”.
Conclude Eva Frapiccini: “Qualcuno mi diceva: ‘Vedrai che ora che farai un figlio non ti muoverai più’. Insegno su tre città, su due nazioni diverse, ed espongo almeno due volte l’anno all’estero. Non mi sembra di muovermi di meno, ma di costruire di più. Gestisco meglio di prima il mio tempo, forse meno aperitivi e opening, ma scelte più concrete per la mia carriera”.

Elena Mazzi, Avanzi, 2015. Courtesy GuilmiArtProject, Guilmi & Galleria Ex Elettrofonica, Roma

Elena Mazzi, Avanzi, 2015. Courtesy GuilmiArtProject, Guilmi & Galleria Ex Elettrofonica, Roma

QUALI FORME DI SOSTEGNO?

Tutti gli artisti (e le artiste) consultati nell’ambito di questa inchiesta, nelle sue due puntate, sono concordi nell’affermare che il mercato ha subito un’importante trasformazione, mutando – soprattutto per le generazioni più giovani – la relazione fra sistema e artista. Le vendite restano una fonte di reddito, alle quali però affiancare insegnamento, residenze, bandi ed esperienze all’estero.
Sicuramente mi piacerebbe avere più certezze sul mio futuro”, confessa Elena Mazzi, chiedendo anche maggiore solidarietà “di categoria”. Questo mi permetterebbe di lavorare con più continuità, senza dover interrompere la mia pratica con altri incarichi. I bandi che finanziano artisti e progetti artistici sono quasi tutti under 35 e finora mi hanno aiutato ad andare avanti nei miei progetti. In ogni caso i bandi, soprattutto quelli italiani, prevedono in spesso un anticipo di somme di denaro destinate a coprire le spese, che vengono sempre restituite con molti mesi di ritardo, dando per scontato che chi applica possa permettersi di anticipare il budget: tutto ciò è ridicolo. Vorrei che le istituzioni fossero più propositive e presenti nel dialogo con gli artisti, vorrei che ci fosse più fiducia e rispetto di un lavoro che ancora è difficile da capire per il grande pubblico. Vorrei che l’arte entrasse in ogni maglia del tessuto sociale, così da rendere nuovamente attiva e presente la figura dell’artista nella società contemporanea”.

Santa Nastro

Questa ricerca prosegue su Who’s art for? Art workers against exploitation, un libro edito da postmedia books che sarà presentato al Teatro del Castello di Rivoli in un convegno il 6 dicembre 2019 dalle 9,30 alle 18,30. Si tratta di un progetto di R-set / Tools for cultural workers in collaborazione con Rete al Femminile. La scelta dei saggi e delle opere presenti nella pubblicazione è avvenuta attraverso una open call internazionale consultabile sul sito http://www.r-set.it/open-call/.

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #51

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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