Mirabilia Urbis e il rapporto fra città e intellettuali. A Roma
La mostra diffusa “Mirabilia Urbis” anima il centro storico di Roma, innescando una riflessione su passato e presente all’insegna dell’arte.
Mirabilia Urbis era il nome dato alle varie carte di Roma disegnate nel corso dei secoli e “mirabile” era veramente scoprire le strade e i curiosi negozi e botteghe che si annidavano in vicoli strettissimi e “malfamati” intorno a Campo dei Fiori. Com’era il centro storico quando i suoi “scopritori” erano artisti, intellettuali, scrittori e gente di spettacolo? Era come Benares, un’antichissima città abbandonata in mezzo a un’altra città che nel boom economico viveva i suoi cambiamenti. Il centro di Roma è stato per alcuni decenni il luogo d’incontro privilegiato fra “intellettuali” e “popolo”, artisti e artigiani, incontro favorito dalla curiosità reciproca e da affinità liberal-anarchiche o di sinistra. Era un ri-incontro storico forse dal tempo della Scuola di Via Cavour, dato che da molto tempo la cultura si era trasferita intorno a Piazza del Popolo. In quegli anni trattorie e bar, gallerie e sezioni di partito servivano da punto di ritrovo per lunghe sedute, discussioni politiche, e molti discorsi su arte e progetti. Era un incontro fra due culture. Oggi un nuovo fenomeno creato dal nuovo assetto di questi quartieri “sventrati” nelle loro funzioni antiche è quello dell’invisibilità dei ceti medi benestanti e colti che dagli Anni Ottanta si sono trasferiti nel quartiere, prima cambiandolo e poi abbandonandolo al turismo e diventando invisibili.
LA MOSTRA
Il progetto della mostra ideato da Carlo Caloro, prodotto da artQ13, realizzato dal Municipio 1 Centro Roma e curato da Giuliana Benassi, cerca l’incontro fra arte, artigianato e cultura resistente nel quartiere, con installazioni o performance, tutto in una notte. A Campo dei Fiori, nel Cinema Farnese, straordinaria roccaforte del cinema di qualità (via di mezzo fra il Filmstudio Cineclub degli Anni Settanta e la Massenzio Nicoliniana), viene collocato all’ingresso un videoclip di Tomaso Binga, in cui poesia visiva e cultura femminista s’incontrano. All’interno un corto video di Julian Rosefeldt, Deep Gold, cita l’Age d’Or di Buñuel, facendo camminare come in un incubo un uomo (straordinariamente somigliante all’originale di Buñuel) in una desolata città in bianco e nero apparentemente abbandonata, dove la gente si uccide a fucilate o fa sesso in ogni possibile modo. Nella vicina Libreria Farheneit 451 (dal famoso film di Truffaut) negli Anni Novanta si organizzavano sotto il monumento a Giordano Bruno incontri in piazza con tante sedie e un tavolino, semplici ed efficaci, dove sono venuti a parlare tutti i protagonisti giovani e non della letteratura di questi anni. Oggi quest’attività continua nella libreria dove Matteo Nasini performa e installa i fogli di una Musica per piccole librerie, sottile come Satie ed esitante come un ricercatore di libri. Al pub Drunken Ship, dedicato all’heavy metal e alle tifoserie internazionali in trasferta, Leonardo Petrucci mimetizza, tra fulmini e teschi, dei poster rock che riprendono le immagini “high-brow” di pittura classica come il Caravaggio delle scene d’osteria.
LUOGHI E ARTISTI
Continuando il percorso, a via Monserrato, nel negozio “Hollywood” video, dove il proprietario (agguerrito cinefilo) vende o affitta solo il migliore cinema d’essai, Rä di Martino copre la vetrina con immagini fotografiche ingrandite e sbiadite, Tra Amburgo e Haiti, strani segni visivi, quasi una riflessione sulle immagini riprodotte e la loro labilità o memoria.
Nello “Spazio Colli Indipendent” Britta Lenk propone un’installazione basata sulla luce, uno spazio determinato da luci led e filtrato da vetri e specchi in molteplici varianti percettive, rifacendosi a un concetto foucaultiano fra utopia ed eterotopia, dove lo specchio rappresenta il passaggio. Nel sotterraneo Federica Di Carlo, in Immerso, respiro tutto colloca un vecchio casco da palombaro avvolto da una luce blu e sommerso dal suono pesante di un respiro. Al Bar Perù, simpatico bar Anni Cinquanta una volta dedito al Lotto, ora all’aperitivo, Carlo Caloro presenta un’elegante bacheca con composizione di cucchiaini ordinati su erba/plastica verde vivo, Bluemoon Operation, ma i cucchiaini sono bucati come tutti i bar della zona facevano per impedire il furto da parte dei drogati che li utilizzavano all’epoca della “Drug Wave”. Ancora Caloro colloca in uno dei cortili segreti dei Cappellari La Lupa che viene munta con una macchina, soggetto pieno di riferimenti a 360 gradi. Nell’Accademia d’Ungheria altre performance, musica, video e installazioni fra cui quelle del gruppo Grossi Maglioni, che si accampa nel cortile dentro tende d’emergenza, raccontando l’avvenuto sgombero di uno spazio occupato, mentre gli Alterazioni Video trattano con Guerra e Pace le fake news. Ma sono le realtà artigianali ancora operative che rendono l’incontro col territorio sorprendente: il liutaio di Via di Montoro lascia intervenire su uno dei suoi preziosi violini José Angelino, che indaga sulle vibrazioni e risonanze degli strumenti classici messi in relazione con l’elettricità. La mostra-happening dura poche ore, ma il punto è la voglia di una maggiore presenza della cultura e la necessità di ri-impossessarsi del centro storico. Cultura e città non sono mai state così separate, la prima confinata nelle strutture istituzionali, la seconda sempre più in balia di una “commercializzazione miope”. “La Cultura produce lavoro”, si dice nei dibattiti a ogni occasione di tagli economici. È vero, così come fa circolare nel centro storico un pubblico non di soli turisti e fa intravedere funzioni diverse.
‒ Lorenzo Taiuti
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