I protagonisti della Scuola di Londra. A Roma
Francis Bacon, Lucian Freud, Franz Auerbach, Paula Rego, Leon Kossoff e Michael Andrews: portano le loro firme le opere esposte a Roma, al Chiostro del Bramante, nell’ambito della mostra dedicata alla Scuola di Londra.
Si può parlare davvero di una Scuola di Londra? Secondo Elena Crippa, curatrice dell’interessante mostra Bacon, Freud, la Scuola di Londra, in corso al Chiostro del Bramante di Roma, la risposta è sì. Il termine, utilizzato per la prima volta dal pittore B.B. Kitaj nel 1976 nel contesto della mostra The Human City da lui curata presso l’Arts Council of Great Britain, si riferisce a un gruppo di artisti accomunati dal vivere nella capitale britannica negli Anni Cinquanta e Sessanta e dal fatto di stimarsi reciprocamente, dopo essere stati colpiti dal dramma della Seconda Guerra Mondiale. Una scuola, quindi, che non è legata a manifesti o statement comuni, ma piuttosto dal partecipare a una koinè spazio-temporale, che ha influenzato profondamente le loro scelte artistiche. Non tazebao o volantini, ma tele e pennelli, dove gli artisti hanno fissato, con un linguaggio severo e rigoroso, un’atmosfera plumbea ma carica di senso e di energia sotterranea, legata alla rinascita di una metropoli dopo i duri anni di conflitto. Ed è quest’atmosfera che la mostra documenta in maniera ineccepibile, grazie a una scelta limitata ma sensata di opere, tutte provenienti dalla Tate Modern, dove la Crippa è curatrice del dipartimento di arte moderna e contemporanea britannica. Il punto di partenza della riflessione sulla quale è incentrata la mostra, che presenta quarantacinque opere realizzate dal 1945 al 2004 di sei artisti (Francis Bacon, Lucian Freud, Franz Auerbach, Paula Rego, Leon Kossoff e Michael Andrews) è legata alla presenza del corpo, che domina la maggior parte delle opere esposte. Un corpo esperito realmente attraverso soggetti reali in posa per Freud, Auerbach, Rego e Kossoff, mentre sia Bacon che Andrews lavorano soltanto con immagini riprodotte: naturalistici i primi, concettuali i secondi. Sembra incredibile, ma i drammatici ritratti di Bacon, compresi quelli legati alla storia dell’arte, sono sempre libere interpretazioni di altre immagini, tratte da libri, riviste e giornali. Un approccio molto diverso del quale la mostra dà conto in maniera precisa, con un incipit straordinario, affidato a quel piccolo capolavoro di Lucien Freud che è Girl with a Kitten (1947), dove nello sguardo attonito della ragazza si avverte ancora il peso della Neue Sachlichkeit (Otto Dix e Max Beckmann ma anche Christian Shad), che Freud aveva avuto modo di conoscere e apprezzare negli anni della sua formazione.
VOLTI
Un’opera che introduce in maniera magistrale uno dei fil rouge principali della mostra: il ritratto, territorio ideale di confronto tra Freud, Bacon, Kossoff e Auerbach. La matrice esistenziale, asciugata da una tavolozza volutamente severa, è l’indubitabile forza di Freud, capace di rendere il sentimento del soggetto ritratto, una sorta di spleen doloroso ma silente, e trasmetterlo all’osservatore senza filtri, in una galleria di volti di un’intensità malata. Si va dal piccolo ma intenso Boy Smoking (1950-51) a Girl with a white dog (1950-51), ritratto della prima moglie del pittore, che in quegli anni si dedica esclusivamente a persone della sua cerchia intima, come nel caso di David and Eli (2003-04), dove vediamo il suo assistente David sdraiato nudo sul letto, con il suo cane accucciato ai piedi, dipinto con uno stile meno preciso e più fluido. All’estremo opposto sono gli allucinati ritratti di Francis Bacon, dove invece i volti appaiono tumefatti e deformati, tesi a esprimere un’angoscia devastante, che fuoriesce dai volti con la forza dell’Urlo di Munch. A differenza di Freud, che sceglie le persone a lui vicine per esaltarne l’individualità in maniera morbosamente oggettiva, in Bacon gli amici sono presenze da annullare e stravolgere, come nel Portrait of Isabel Rawsthorne (1966), l’amica artista alla quale il pittore dedicò una serie di ritratti, uno più allucinato dell’altro. Ancora diverso il mood di Head (1957 circa) di Leon Kossoff, dove il volto disegnato a carboncino sembra emergere da un’oscurità totale attraverso una tessitura di segni confusi, mentre Head of E.O.W. (1959-60) di Auberbach ha il volto disfatto e martoriato di una persona in fin di vita.
LUOGHI E PERSONE
Uno dei dipinti più poetici della mostra è The Dance (1988) di Paula Rego, che raffigura una serie di coppie che ballano sulla spiaggia al chiaro di luna; accompagnato da alcuni disegni preparatori, introduce il secondo filone della mostra: il paesaggio. “Oltre a disegnare e dipingere la figura umana, quasi tutti questi artisti erano soliti rivolgere, più o meno costantemente, lo sguardo verso l’ambiente circostante”, spiega la curatrice. Il più fantasioso è certamente Michael Andrews, che amava rappresentare l’atmosfera di luoghi familiari in maniera inusuale, come in Melanie and Me swimming (1978-79) o ancora di più in A Man who Suddenly Feel Over (1952), reso con un tratto libero e quasi fumettistico. Più espressionistici, invece, seppur in maniera diversa, Leon Kossoff e Franz Auerbach: Kossoff descrive una Londra fantasmatica e surreale, rappresentata in mostra da Children’s Swimming Pool Autumn Afternoon (1971) e Christ Church, Spitalfields Morning (1980) insieme ad alcuni disegni preparatori. La pittura di Auerbach è più pastosa e materica, come si vede in The Sitting Room (1964) e Primerose Hill (1967-68), una collina nei pressi di Regent’s Park vicina allo studio dell’artista. Entrambi, infatti, realizzano i loro dipinti grazie a studi e visite in situ nel corso degli anni, e quindi le loro visioni sono il risultato di una sorta di stratificazione di memorie decennali.
‒ Ludovico Pratesi
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