Arti visive al Romaeuropa Festival
Da Pascale Marthine Tayou e Hans Op de Beeck, il Romaeuropa Festival dedica un importante capitolo espositivo alle arti visive, affiancate alle tecnologie digitali.
Il festival rompe un tabù, l’affiancamento delle arti visive a una mostra digitale. Ma ciò avviene in diversi festival, a fine decennio, celebrando la riunione fra linguaggi diversi. Hans Op de Beeck è presente con un video sottile, glaciale e bello, Staging Silence, dove mani anonime compongono e scompongono un paesaggio miniaturizzato, una composta serie di gesti che costruisce un mondo e poi lo disfa. Elegante e minimale nel suono come nell’azione, il lavoro potrebbe essere anche un teatro di figura come se ne vedono nel festival, e questo gli dà un’efficacia particolare. Sottile e freddo anche lo spettacolo The Valley (an apocalypse), lungo monologo minacciato da un angelo con ali nere e illuminato dalla bella musica sax di Eric Sleichim e del gruppo Blindman. Di Yinka Shonibare MBE, in prestito dal MAXXI un lavoro sui missionari e sul colonialismo, Invisible Man, servitore o portatore di un sacco da cui emergono oggetti e che fa pensare al furto del colonialismo e allo scontro fra passato e presente.
ARBRES DE VIE
Pascale Marthine Tayou è un artista camerunese e vive fra Cameroun e Belgio. Ha iniziato a esporre con successo in Africa e a partecipare a mostre internazionali, anche sotto la cura di Okwui Enwezor. Manifesta, Biennale e mostre alla Galleria Continua sono fra le tante occasioni espositive. Al Romaeuropa Festival espone gli Arbres de vie, veri alberi coperti da oggetti. L’oggettistica utilizzata da Tayou meriterebbe un elenco come gli elenchi in Gargantua e Pantagruel. Tayou ha la caratteristica di utilizzare la materia e le materie in modo insieme tradizionale ed eccentrico. L’arte classica africana è “materia” trasferita in “forma” forse più di quella occidentale. Ma Tayou non segue le regole e attraversa forme e linguaggi in modo inatteso. Gli alberi del titolo sono quattro e ognuno sembra rappresentare una cosa, ma nel lavoro di Tayou tutto esplode in forme e contenuti diversi. Sugli alberi crescono chiodi, uova colorate, piume variopinte, grandi coltelli, maschere di vetro ispirate alle tradizionali maschere africane, catene (ricordi negativi), sacchi di plastica, molteplici oggetti irriconoscibili di matrici diverse. Un mare di oggetti che provengono sia dal mondo materiale sia dalla produzione industriale.
OLTRE I CONFINI
Nella mostra l’artista travalica i confini fisici assegnati e le modalità definite e questa liberazione è già patrimonio dell’arte di oggi, che rifiuta gli “stili”. C’è anche l’Africa naturalmente, e l’artista si tuffa in tutte le contraddizioni con grande gioia, in qualche modo cancellandole. Ci sono anche molte cose non subito identificabili, sommerse dalla straripante fantasia dell’autore. Quelle riproduzioni di maschere antiche in legno sono approvanti o critiche? E la loro traduzione in vetro trasparente è un’accusa al consumismo o un valore aggiunto? Comunque la mostra travalica gli spazi previsti e invade la Pelanda con stelle filanti di plastica ipercolorata, sampietrini e chiodi. Tutto diventa colore e vitalità. Anche gli elementi negativi? Anche le memorie del colonialismo? All’esterno poi un gigantesco murale (purtroppo non su muro per ragioni di stabilità) fornisce alla piazza d’ingresso del Macro quell’evidenza colorita di cui ha bisogno. Nel suo lavoro si supera in parte la problematica del passato inquadrandolo nel capitolo “storia” e aprendo a un vitalistico approccio con la libertà del contemporaneo, territorio senza confini.
‒ Lorenzo Taiuti
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