Conquistando luce (V)
Che cosa rende tale un’opera d’arte? Certamente non il conformismo e la logica della “likeability”, ma la capacità di favorire dei processi e di stare lontani dalle facili “ricette”.
Lo scopo dell’opera – e dell’artista; e anche del curatore, se è per questo ‒ non è farsi notare, ‘mettersi in mostra’, esibirsi, ma è quello di favorire e sostenere dei processi. Che a sua volta non è una faccenda retorica, fondata sull’uso ossessivo di parole-chiave e formulette (come spesso avviene in certi progetti assessorili e ministeriali, che rivelano una paurosa dissociazione tra programmazione/visione scritta, che rappresenta una wishlist, e i risultati ottenuti concretamente, quasi sempre una merda: del resto, uno dei mali più gravi della nostra epoca è proprio questa visione dell’arte e della cultura, come se le cose importanti fossero mai state calate dall’alto o fossero mai state decise a livello amministrativo-istituzionale, e non fossero invece sempre avvenute, almeno negli ultimi centocinquant’anni, nei luoghi più degradati e disagiati e stimolanti, nelle comunità più sbrindellate, a opera di gente normalmente squinternata e senza un briciolo di potere decisionale ma con moltissimo potere creativo a disposizione…); è invece una questione molto pratica, che implica la conoscenza diretta delle persone e dei tessuti urbani, la capacità di stringere rapporti, l’amore per il genere umano, l’assenza di cinismo e la passione smodata per gli aspetti più strani e irrisolti che una realtà cittadina ha da offrire.
Diciamo che tutto questo rappresenta un buon punto di partenza. Ma ancora non basta. Sapete quanti artisti e curatori dotati di buona volontà, delle idee giuste, di princìpi morali e di una visione tutto sommato apprezzabile ma che poi, all’atto pratico, non sono capaci di cavare un ragno dal buco né di tirare fuori un’opera decente manco a pagarla oro, ho visto e conosciuto finora? Perché l’opera richiede follia, ostinazione, una certa dose di ottusità e un’intelligenza prensile in grado di connettere punti lontanissimi tra di loro, e di dare luogo all’imprevisto. Perché qui stiamo parlando sempre, come dicevamo la scorsa volta, di quelle “opere che creano, quasi dal nulla (out of nowhere) il proprio contesto, perturbando e sconvolgendo la situazione in cui appaiono, opere che generano da sole un intero gusto, e che causano direttamente la fioritura di altre opere simili, o dissimili. Chiamiamo di solito queste opere ‘capolavori’.”
E dunque, con buona pace dei sostenitori delle varie “quote” e di coloro che pensano che basti davvero rientrare in un codice vagamente politically correct e interessarsi in maniera altrettanto vaga di migrazioni, geopolitica, mutazioni storico-politiche, trasformazioni sociali, economia, globalizzazione, diritti delle minoranze, razzismo, maschilismo, omofobia, discriminazione, ecologia, ecofemminismo, xenofemminismo, antispecismo, accelerazionismo, antropocene, ecc. ecc. per guadagnarsi la patente di artista e critico/curatore “impegnato” (qualunque cosa voglia dire) e soprattutto per realizzare un’opera culturalmente rilevante, chiariamo subito che, ovviamente, non è così.
Anzi, se proprio la vogliamo dire tutta spessissimo il suddetto training, per quanto diligente e accurato, se non sostenuto adeguatamente da spirito critico e pensiero indipendente e cazzimma rischia nove volte su dieci di spingere l’artista – e il curatore – nella zona paludosa del conformismo, del desiderio micragnoso di essere come gli altri, della retorica pelosa, della likeability appunto, e in definitiva dei pensieri inutili e noiosi: il che equivale, ça va sans dire, alla morte spirituale.
E quindi come deve fare un povero artista se è intenzionato a realizzare un capolavoro? Innanzitutto, per esempio, stare a sentire Virginia Woolf: “Per quanto frughi nella mia mente, non riesco a trovare alcun sentimento nobile, per quel che riguarda il fatto di essere compagni e pari, oppure d’indirizzare il mondo verso scopi più elevati. Mi sento invece di dire, brevemente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che non tutto il resto. Non sognate di influire sugli altri, vi direi, se sapessi farlo con parole più eccitanti. Pensate alle cose come sono in sé” (Una stanza tutta per sé, Feltrinelli 2019, p. 150).
Rilassarsi, divertirsi, fregarsene di ciò che pensano e dicono gli altri ‒ soprattutto gli altri del ‘mondo dell’arte’ –, capire che nessuno ha la ricetta giusta perché non esiste nessuna ricetta, e quelli che dicono di averla sono disonesti, stanno facendo finta, e in ultima analisi sono disperati. Vivendo bene, può darsi che qualche cosa vada per il verso giusto anche artisticamente e creativamente; vivendo male, nella frustrazione, nell’invidia e nell’incazzatura perenne (non l’incazzatura sana e benedetta contro questo presente scadente e odioso in ogni sua parte, ma l’incazzatura velenosa e improduttiva della serie “il mondo non mi capisce ed è tutto un complotto ai miei danni”, per inciso uno dei tunnel più schifosi in assoluto in cui un essere umano si può ficcare), certamente andrà male pure l’opera. E, in fondo, se ci pensate è anche giusto così.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Conquistando luce (I)
Conquistando luce (II)
Conquistando luce (III)
Conquistando luce (IV)
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