Pittura e controcultura. Intervista a Dan Witz
A sei anni di distanza dalla sua prima mostra in Italia, la nuova sede milanese di Wunderkammern presenta una serie inedita di dipinti dello urban artist americano.
Pacato e irrequieto, affabile e ribelle. Al vernissage è con la compagna e due meravigliosi bimbi biondi. Da sotto le maniche della giacca scura spuntano mani tatuate. Pioniere della Street Art di fama internazionale, Dan Witz (Chicago, 1957) vive e lavora a New York dalla fine degli Anni Settanta. In oltre quarant’anni di attività, l’artista ha realizzato installazioni e progetti in molte città, esposto in gallerie d’arte e musei e partecipato a festival a livello internazionale, ottenendo premi e riconoscimenti da parte, tra gli altri, della New York Foundation for the Arts e del National Endowment for the Arts. Tra le collaborazioni più recenti, nel 2017 ha collaborato con Dior durante la settimana della moda maschile parigina.
La nuova mostra da Wunderkammern, intitolata American Baroque, riunisce quindici opere: olii su tele e tavole di varie dimensioni che ritraggono scene di pogo punk-hardcore e di rave, grotteschi sovraffollamenti orgiastici con anafore di corpi a perdita d’occhio; e piccoli ritratti onirici e fluttuanti. Dipinti inattuali e tradizionali nella tecnica, che hanno a che fare con un’America ribelle, complessa e anticonvenzionale.
Da dove traggono ispirazione i dipinti in mostra a Milano, e in che periodo li hai realizzati?
I grandi dipinti risalgono agli ultimi quattro anni. Due poghi (da concerti hardcore), due composizioni rave, due mischie di Legacy Fatale [collettivo di performance art, N.d.A.] e altre due, le felpe con il cappuccio e l’orgia, sono tratte dalla serie Scrum. In generale sono un pittore lento. I miei ritratti di gruppo richiedono mesi di lavoro, senza contare le notti trascorse a scattare foto nei club e i mesi spesi a lavorare alle composizioni.
Nei tuoi dipinti “iperrealisti” rappresenti l’immaginario della notte. Sembri parlare all’inconscio dell’osservatore, destando sia una visione d’insieme sia l’osservazione dei dettagli. In questo senso, le tue opere sono surrealiste o realiste?
Se per surrealista intendi derivato da sogni o automatismo, non lo sono. I miei interessi sono rivolti più che altro alla rappresentazione realistica, che indaga lo spazio liminale sospeso accanto alla realtà. Il classico chiaroscuro che utilizzo ha una lunga storia di seduzione spirituale, io però lo uso non tanto per mostrare la pietà religiosa, ma per esplorare l’ansia del XXI secolo. Anche le mie composizioni sono realizzate per apparire naturali, eppure i modelli che interagiscono spesso provengono da fotografie scattate a distanza di anni. E nei dipinti notturni la resa della luce è creata in gran parte in corso d’opera, direttamente sulla tela: risultato di anni trascorsi nei musei dedicati ai grandi della pittura europea. Ciò detto, mi piace pensare al mio approccio come a una versione aggiornata del realismo accademico tradizionale. Un’affermazione con cui la maggior parte dei professori di pittura realista sono certo sarebbe in disaccordo.
Il tuo lavoro pare un’azione di “controcultura” artistica, nel senso di opposizione dissimmetrica alla visione del mondo e allo stile di vita comunemente condivisi. “Contro” quale pensiero dominante si esprime?
Sono diventato maggiorenne credendo che l’arte dovesse essere un agente di cambiamento e aiutare lo spettatore a cercare una visione più ampia. Che dovesse sfidare lo status quo non solo esteticamente ma, più in generale, la conversazione culturale. A volte questo può essere un problema. Le norme culturali sono testarde. Ma credo la lotta sia necessaria e valga la pena. Nel corso della mia carriera, ho visto molte strutture sociali apparentemente intrattabili smuoversi. Di solito, in avanti.
Abbinando il figurativismo iperrealista con soggetti “alternativi” o “controculturali”, la tua opera crea un effetto di dissonanza. È un modo per sollecitare l’attenzione del pubblico?
La storia dell’arte racconta che il non familiare spesso mette a disagio. Dubito farei questo lavoro se tutti, in primis i guardiani del mondo dell’arte, avessero accolto di buon grado quello che stavo facendo. Dopodiché non sono un fan dell’arte provocatoria, imperscrutabile, sgradevole o aggressiva. Per temperamento prediligo un’arte stimolante ma che offra un punto di accesso. Poi la dialettica e le questioni culturali sono affari tuoi. Come artista, per me la cosa peggiore in assoluto è che uno passi davanti al mio lavoro come se niente fosse. L’obiettivo dell’artista è quello di far riflettere. Solo allora, quelle scintille di dissonanza potranno accendersi.
Le controculture hanno spesso affermato la loro volontà di indipendenza dal mercato. Come street artist, come ti relazioni all’art system, con le sue gallerie, le fiere e gli sponsor?
Ho due corpi di lavoro separati: pezzi da studio per mostre commerciali e arte di strada. La mia pratica di Street Art è sempre stata una valvola di sfogo per le pressioni legate alla carriera: un modo per liberarmi dal mercato e dai suoi inevitabili compromessi. Detto questo, quando il sistema funziona per me e sovvenziona i miei progetti di strada, lo accolgo volentieri.
Una curiosità: puoi spiegare il tuo autoritratto?
Uno dei miei progetti in corso si intitola Early Sunday Morning (in omaggio a Edward Hopper). È una collaborazione creativa con alcune persone interessanti, a cui piace esprimersi sperimentando la propria identità o immagine di sé. Facciamo un servizio fotografico e poi dipingo dalle fotografie. La premessa è uscire venerdì sera e imbattersi in qualcosa di estremo, dissoluto, pericoloso, viaggiare fino alla fine della notte e la domenica all’alba sbattere il corpo nuovamente a Brooklyn. I modelli creano e interpretano vari scenari in base alle proprie fantasie (costumi, situazioni, oggetti di scena ecc.) e l’ultimo è costituito dai loro corpi stesi a terra. Dopo vari shoot, rendendomi conto fin dove le persone si sarebbero spinte esponendo le proprie vulnerabilità e interiorità, ho pensato che sarebbe stato più giusto se avessi partecipato anch’io. Il personaggio rasato, impolverato e con il pannolone è un alter ego tratto da uno dei miei progetti di Street Art intitolato King Baby.
‒ Margherita Zanoletti
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