Del sottrarre aggiungendo. Giovanni Oberti in conversazione con Bianca Trevisan

Galleria Milano – fino al 9 dicembre 2019. Giovanni Oberti, protagonista della mostra nella galleria milanese, risponde alle domande della curatrice Bianca Trevisan. Ripercorrendo la propria poetica.

Alla Galleria Milano è in corso la mostra personale di Giovanni Oberti, intitolata La pelle degli oggetti. Di Oberti, da quando lo conosco, mi ha sempre colpito la nitidezza della sua visione e l’essenzialità formale del suo lavoro. Credo veramente che sia uno dei giovani artisti italiani (è nato a Bergamo nel 1982) più interessanti di questo momento, dove l’onnipresenza e la visibilità sono così esasperate da sembrare le uniche modalità possibili. Lui fa il contrario, ha un’attitudine sottrattiva che non si traduce in atteggiamento ma in linguaggio; per dirla meglio è quindi, più che altro, selettivo, sceglie le parole con cura così come le vie da percorrere, e il risultato è di rara e preziosa finezza.
Ho fortemente voluto questa mostra alla Galleria Milano, storico spazio milanese guidato dalla metà degli Anni Sessanta fino a qualche mese fa da Carla Pellegrini, che è scomparsa nel febbraio 2019 lasciando una traccia profonda nel mondo dell’arte e in chi l’ha conosciuta. Oggi la galleria è rinata per volontà di suo figlio e di suo nipote Nicola e Baldo Pellegrini, insieme a Toni Merola e a me. Anche Carla ha avuto modo di apprezzare Giovanni e per noi è stato naturale dedicargli una delle prime mostre di questa nuova vita, volta all’attività di ricerca sia in direzione delle – migliori, a nostro giudizio – nuove sperimentazioni, sia verso l’approfondimento di autori già nella storia dell’arte contemporanea.
Nelle due sale della galleria, un ambiente un po’ antico, volutamente caldo, accogliente, quasi una casa, prende forma la mostra di Oberti. I grandi specchi girati, così come i piccoli oggetti – noccioli, frutta secca, piccoli giochi e utensili – sono ricoperti da uno strato di grafite, pazientemente realizzato con l’utilizzo della semplice matita. Questa patina impedisce uno sguardo diretto e innesca una riflessione nello spettatore sul meccanismo della visione.
Tra settembre e ottobre ho incontrato l’artista diverse volte: abbiamo avuto lunghe conversazioni a più riprese, di cui questa intervista è il prodotto finale, pubblicata sul poster/catalogo, insieme a un testo critico di Elio Grazioli, con me curatore della mostra.
Giovanni e io abbiamo parlato di superficie, di ombre, di linguaggio, di vita, nel tentativo di andare a fondo, di capire, insieme, le sue vere ragioni.

Giovanni Oberti. La pelle degli oggetti. Installion view at Galleria Milano, Milano 2019. Photo Floriana Giacinti. Courtesy Galleria Milano

Giovanni Oberti. La pelle degli oggetti. Installion view at Galleria Milano, Milano 2019. Photo Floriana Giacinti. Courtesy Galleria Milano

Come forse avrai intuito in questi anni, sono una sostenitrice delle ragioni della leggerezza pensosa, del planare sulle cose dall’alto, come Calvino insegna, dunque, dal momento che penso tu mi sia affine in questo, iniziamo senza troppi giri di parole1.Che cosa ti ha portato verso l’arte? Che tipo di bambino eri e poi che ragazzo sei stato?
Sono nato in una famiglia amante dell’arte, l’arte era presente sin da piccolo in casa attraverso i cataloghi delle mostre che visitavamo, alcune monografie di artisti, riviste, ecc.
Ricordo anche dei quadri di mio padre e di mia madre appesi alle pareti della prima casa che ho abitato. Ero un bambino normale e cerco di esserlo tutt’oggi, curioso e sincero, mi sporco le mani, ancora.

Come hai iniziato? Quali sono stati i tuoi primissimi punti di riferimento?
Il primo ricordo che ho legato al mio operare è il disegno di un arcobaleno, fatto con l’acquarello all’asilo, dopo che tutti mi dissero che era bello e lo appesero, di nascosto lo strappai. I miei primi punti di riferimento li ho incontrati tardi, solo studiando, quindi al liceo ero attratto dall’opera Land art e minimalista degli artisti americani e dall’Arte Povera italiana che iniziavo a riconoscere nei suoi vari figuranti durante le sempre più frequenti visite ai musei. Penso sia scontato dirlo, ma tra i primi artisti che ho riconosciuto nella loro importanza per la mia formazione nominerei sicuramente tanti italiani del Novecento. Quando ho visto per la prima volta il lavoro di Pino Pascali e di Giulio Paolini è stata un’epifania, mi sono detto: “ma c’è quindi un altro modo di fare arte, non legato all’estetica”. Ti faccio un altro esempio. Mio padre mi portò in Triennale, dove erano esposte le ceramiche e i Concetti spaziali di Lucio Fontana: lì mi sono trovato di fronte alla rappresentazione della realtà per ciò che è, non per ciò che appare. Ho capito la potenza dell’idea, che è tutto ed è fatta di niente. Ancora, tornando alla leggerezza pensosa di cui parlavi: il fiato di Piero Manzoni2 mi ha aperto lo sguardo verso la capacità dell’artista di arrivare all’essenza dell’idea: quel nocciolo profondo comune a tutti gli uomini, l’idea universale. Mi piace spesso dire che “l’artista ha bisogno di una materia, ma solo per rendere visibile quel soffio”3  – dove il soffio è l’idea – agli occhi della gente. Questo ha anche a vedere con la durata: se l’oggetto non ha una vita eterna, esso però può sopravvivere nella sua stessa idea, se resa manifesta.

Ho voluto molto questa mostra e per me è molto importante che Carla abbia avuto modo di conoscere e apprezzare il tuo lavoro4. Solo l’estate scorsa, in studio da te, mostravi a entrambe i tuoi frutti e i tuoi specchi, presi dal rigattiere, immaginando una possibile esposizione. Ma l’idea degli oggetti dipinti parte da lontano, i tuoi primi lavori in questo senso sono di dieci anni fa.
Oggetti dipinti è un lavoro nato nel 2009, per una mostra presso Careof a Milano dal titolo Il raccolto d’autunno è stato abbondante5. In quel periodo ero da poco attivo come artista, con uno spazio dove lavorare e tutto il resto, avevo appena concluso gli studi e conoscevo Carla già da qualche anno, anche se un rapporto vero di amicizia non lo abbiamo mai avuto fino a che non sono diventato amico tuo e di Toni. Ricordo di aver pensato subito che mi sarebbe piaciuto poter esporre quel mio nuovo lavoro nel suo spazio, ma ho avuto il coraggio solo qualche anno più tardi di farvi vedere personalmente gli oggetti dipinti. Sono contento che Carla sia stata nel mio studio e la ricorderò sempre, per molti motivi.

Giovanni Oberti. La pelle degli oggetti. Installion view at Galleria Milano, Milano 2019. Photo Floriana Giacinti. Courtesy Galleria Milano

Giovanni Oberti. La pelle degli oggetti. Installion view at Galleria Milano, Milano 2019. Photo Floriana Giacinti. Courtesy Galleria Milano

Come mai hai scelto il titolo oggetti dipinti per questa tua serie?
Ho da tempo ammirazione per gli oggetti dipinti di Bertrand Lavier6, che non si intitolano veramente così, ma li ho sempre identificati come tali. Cercavo un titolo che parlasse dei miei oggetti attraverso parole che li definissero, coprendoli allo stesso tempo di un velo di mistero. Per me il titolo è la prima didascalia dell’opera, come disse Harald Szeemann durante una lezione a Bergamo nel 2004.

C’è però un’ambiguità di fondo in questo titolo. I tuoi oggetti, come quelli di Lavier, non sono dipinti su un supporto, ma sono essi stessi supporto per la materia pittorica.
Esattamente. Quando mi sono imbattuto in un suo pianoforte dipinto ho deciso. Fino a quel momento li avrei voluti chiamare brillo box7, giocando con la teca-supporto che li protegge. Ma poi mi è sembrato che “oggetti dipinti” rendesse meglio questo slittamento.

La Galleria Milano è un luogo connotato, l’esatto opposto di un white cube. Ha un ruolo la sua architettura nel progetto di mostra?
Assolutamente sì, un luogo che assume valore per le opere stesse. Volevo fare una mostra di oggetti semplici in relazione tra di loro e con lo spazio, piccole composizioni da fruire singolarmente in un rapporto intimo con il proprio spettatore. La connotazione architettonica della Galleria Milano, con il suo affresco, il suo parquet a lisca di pesce e il suo aspetto denso di storia è una cornice perfetta per ospitare degli elementi semplici e la loro aura.

Un’aura sottile e al tempo stesso chiaramente percepibile. Usi spesso la parola ‘semplice’ per i tuoi oggetti e le tue opere: la tua poetica è minimale, in sottrazione. Pensi che ci sia un’evoluzione in questo senso o è una costante nel tuo linguaggio?
Sottrarre aggiungendo, come mettere una tenda di fronte a un quadro: questo è quello che faccio con i miei oggetti dipinti, per esempio. Ma anche rendere visibile sottraendo: penso ad esempio a Senza titolo (Forchette, polvere)8, dove presento una tavola imbandita apparecchiata con la collezione di ceramica di famiglia: non sono presenti gli oggetti in sé, ma le loro tracce impresse nella polvere. Mi piace pensare che nel mio linguaggio questa sia una costante, nonostante la certezza di cambiare idea molto spesso e non per forza nella direzione più giusta.

Giovanni Oberti, Senza titolo (Oggetti dipinti), 2011. Photo Floriana Giacinti. Courtesy Galleria Milano e l’artista

Giovanni Oberti, Senza titolo (Oggetti dipinti), 2011. Photo Floriana Giacinti. Courtesy Galleria Milano e l’artista

Entrando in galleria lo spettatore è accolto da grandi specchi alle pareti. Specchi impossibili, girati, rivestiti di grafite. L’atto del rispecchiamento è negato, sono quindi privati della loro funzione. La corrispondenza tra significante e significato è interrotta, spezzata. Restano solo ombre. In questo senso mi paiono particolarmente significativi alcuni versi di Paul Celan, in cui leggiamo: “Dà anche senso al tuo pensiero / dagli ombra. […] / Dice il vero, chi dice ombre”9, come se l’ombra permettesse agli oggetti di conservare l’opacità che è loro connaturata. Non vedere permette quindi di vedere meglio, o davvero. Riappropriarsi della realtà come entità molteplice e non univoca. Sei d’accordo?
La duplice negazione della visione dell’oggetto reale è l’elemento che mi interessa evocare attraverso gli specchi, che vengono esposti come oggetti, quindi distanziati dal muro, per permettere all’ombra e ai giochi di luce di ritagliarne una forma tridimensionale nello spazio.
Guardarsi in uno specchio che non riflette è la stessa cosa, per ricollegarmi a quanto dicevamo prima, di mettere una tenda davanti a un dipinto: l’occhio non si ferma alla superficie del visibile.

A proposito di spazio e di sguardo, abbiamo accennato più volte nelle nostre conversazioni a Leon Battista Alberti, alla sua metafora dello sguardo dello spettatore come razzo che colpisce perpendicolarmente il suo bersaglio, ovvero l’oggetto reale osservato. La patina di grafite che ricopre i tuoi oggetti, però, interviene su questa traiettoria.
Leon Battista Alberti scriveva nel De Pictura di questi “razzi visivi” che incontrano la superficie osservata dallo spettatore e tornano indietro, insomma degli elementi immaginari che vivono solo nello spazio che divide noi da ciò che stiamo guardando10.
Da questa descrizione mi sono immaginato un lavoro che ritraesse lo spazio vuoto, cercando di evidenziarne l’importanza per la visione. Prima è nato Tra spettatore e superficie, un video che ho realizzato nel 2006 nella Pinacoteca di Brera11, dove attraverso una telecamera e un microfono puntati di fronte allo Sposalizio della Vergine di Raffaello Sanzio ho messo a fuoco un punto medio tra l’obiettivo e la superficie del dipinto, registrando quanto più possibile gli elementi visivi e uditivi che compongono quel vuoto. Tempo dopo, ragionando sempre sullo spazio invisibile che divide noi da quello che stiamo guardando, ho realizzato i primi oggetti dipinti a matita, dove la grafite è utilizzata come elemento essenziale per evidenziare la superficie colpita dallo sguardo.

In effetti le tue opere, gli specchi ma anche le teche in cui sono inseriti i tuoi oggetti, agiscono da dispositivi di visione, come fossero degli schermi sui quali è proiettata una data realtà – nel tuo caso, opaca e impossibile. Schermi era il titolo che inizialmente avevamo pensato per questa tua personale, nonché il titolo di una mostra di Fabio Mauri presentata qui in galleria nel 200712.
Lo schermo nell’arte è un concetto non troppo recente e nonostante tutto molto legato alla contemporaneità: l’ho utilizzato nella creazione degli specchi proprio perché rappresentano dei dispositivi di visione (come gli schermi di Mauri, ma banalmente anche la televisione spenta in una stanza vuota) dove la visione è duplicemente annullata, dal momento in cui lo specchio è girato e ricoperto di grafite o meglio, celato. La visione o rappresentazione così ottenuta è semplice superficie, ricoperta di linee e di punti fatti a matita.
Ricordo la mostra di Fabio Mauri molto bene, anche perché fu la prima che mi portò in galleria visto che all’epoca da studente volevo fare un’intervista all’artista per conoscerlo e parlare proprio dei suoi schermi, ma Carla saggiamente lo proteggeva dalle avance di un giovane scapigliato e non me lo fece intervistare.

Torniamo alla patina di grafite. Come mai hai scelto proprio la matita? Come realizzi i tuoi oggetti?
La patina13 è in effetti un segno del tempo che diventa una seconda pelle che copre completamente quella originaria degli oggetti. Chiamare così quella che riveste gli oggetti dipinti mi piace. Infatti, aggiungo sempre la dicitura ‘polvere’ tra i materiali che compongono l’opera. La matita come dicevo è un elemento essenziale, basilare, agisce come un evidenziatore: lasciando semplici tracce sul foglio, è lo strumento che ci permette di rendere visibili i punti e le linee che in realtà sono il grado zero del linguaggio pittorico e non solo.
Dunque la matita, attraverso i punti e le linee, dà vita al segno, e i segni, sovrapposti tra di loro, divengono superficie.

Decisamente un processo meditativo che, per altro, trova nella natura contesto e ispirazione. Come si sviluppa la ricerca di questi oggetti? Gli specchi mi ricordano quelli delle case antiche, mentre noccioli e frutti spesso provengono da piante non comuni. Camminare poi mi pare un elemento importante della tua postura non solo nell’arte, ma nella vita.
Il primo specchio l’ho trovato su un marciapiede, tra le cose da buttare: non stava più riflettendo nulla, se non il marciapiede stesso. Uno specchio è davvero un oggetto d’uso comune, come una forchetta o un bicchiere14: può cambiare nel design secondo la moda, ma la sua funzione rimane invariata. Ho dunque deciso di dare una seconda vita a questo oggetto, ma utilizzandolo girato, applicando quindi un doppio annullamento: la sua funzione è totalmente azzerata, e il velo di grafite ne copre la pelle originaria.
Sono spesso gli oggetti che trovano me, o comunque quando mi ci trovo di fronte, qualcosa in loro mi sussurra di volere venire con me e quindi di prenderlo, tenerlo bene, guardarlo e dargli un nuovo significato. Alcuni elementi naturali come semi, frutti, noccioli e rami non smettono di incuriosirmi in ogni loro aspetto, per questo li cerco, li raccolgo, li colleziono, li fotografo, fino a farli divenire oggetti d’affezione15, nei confronti dei quali provo un vero e proprio innamoramento. Come nel caso dell’amore, quando una cosa è rara, la ami di più. Ecco perché la scelta di semi particolari come quelli del banano di montagna o dell’annona.
Mi ritengo principalmente un osservatore e camminare mi permette la scoperta di orizzonti inediti: divento un cacciatore d’immagini, un po’ come Joseph Cornell per le strade di New York16.

Giovanni Oberti. La pelle degli oggetti. Installion view at Galleria Milano, Milano 2019. Photo Floriana Giacinti. Courtesy Galleria Milano

Giovanni Oberti. La pelle degli oggetti. Installion view at Galleria Milano, Milano 2019. Photo Floriana Giacinti. Courtesy Galleria Milano

Il tuo lavoro ha anche una componente inter/multidisciplinare: ad esempio nel 2016 hanno collaborato con te Daniele Cremaschi e Andrea Giansanti nella creazione di un ambiente di realtà aumentata17. La tua mostra alla Galleria Milano, invece, sarà accompagnata da una performance musicale.
Trovo necessario lo scambio disciplinare in tutti gli ambiti della ricerca, tant’è che spesso un’idea non può essere realizzata dalla stessa persona che l’ha immaginata, necessarie sono la conoscenza e le abilità di altri individui che riflettono sullo stesso argomento da punti di vista e con mezzi differenti. Per questo spesso mi trovo a voler coinvolgere altre persone nella messa in scena di un mio lavoro o di una mia mostra. Nel caso della mostra alla Galleria Milano ho coinvolto Alan Abd El Monim, che è un compositore contemporaneo, perché scrivesse della musica dedicata ai miei oggetti. I suoi spartiti verranno poi interpretati da un sassofonista nelle sale della galleria durante la serata finale della mostra. Questa operazione permetterà agli spettatori di ricevere una nuova interpretazione del progetto espositivo attraverso i tempi di una musica fino a quel momento inedita.

In senso più ampio, il rapporto con il tempo mi pare essere centrale in tutto il tuo lavoro: tracce, usura, polvere, in generale la deperibilità delle cose. Anche per queste tue opere in mostra la decisione di non fissare la grafite le sottopone all’inevitabile caduta del materiale. Mi piacerebbe capire le tue ragioni su questo punto, anche in rapporto al tuo vissuto e alla tua prospettiva personale.
Il tempo, che sia inteso come tempo presente o tempo della memoria, è indispensabile all’atto stesso del vedere, è il tempo che passiamo guardando un oggetto o un paesaggio, insieme al tempo che usiamo per indagare le tasche della nostra memoria a darci più informazioni relative a cosa ci troviamo di fronte. Quando studiavo mi hanno insegnato che dopo aver avuto un’idea ed essersela appuntata è necessario far trascorrere del tempo prima di realizzarla e decidere se proseguire in una direzione piuttosto che in un’altra.
Il tempo inesorabilmente modifica tutte le forme, allontana il presente e aiuta a decidere il senso di mettere al mondo qualcosa di nuovo da proiettare verso il futuro.

Bianca Trevisan

Note

  1. Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988.
  2. Il riferimento è all’opera Fiato d’artista, del 1960.
  3. Marco Lodoli, Introduzione, in Giovanni Verga, Vita dei campi (1880), Edizioni L’Unità, Roma 1993.
  4. Carla Pellegrini è stata la storica direttrice – e anima – della Galleria Milano, dal 1965 sino alla sua scomparsa quest’anno.
  5. Si veda il catalogo Chiara Agnello e Milovan Farronato (a cura di), Il raccolto d’autunno è stato abbondante, catalogo della mostra (Milano, Careof/Viafarini, 10 novembre-23 dicembre 2009), Mousse Publishing, Milano 2009. Mostra collettiva con opere di Antonio Barletta, Riccardo Baruzzi, Emily Bovino, Loredana Di Lillo, Cleo Fariselli, Giorgio Guidi, Renato Leotta, Giovanni Oberti, Anja Puntari, Matteo Rosa, Maia Sambonet, Manuel Scano, Santo Tolone.
  6. Tra i lavori più noti di Bertrand Lavier sono i ready-made derivati dal prelievo di oggetti d’uso quotidiano e attivati attraverso la copertura della loro superficie con materia pittorica, con una tecnica chiamata dall’artista stesso Van Gogh-brushwork. Come nel caso di Marcel Duchamp, banali oggetti assurgono al rango di opera d’arte ma, fatto ancora più rilevante in questo contesto, divengono l’immagine dipinta di loro stessi.
  7. Andy Warhol, Brillo Boxes (Soap Pads), 1964.
  8. Opera del 2006, presentata a Palazzo Tozzoni, Imola, nel 2006 in occasione della mostra Ad’a, Area d’azione, a cura di Roberto Daolio.
  9. Paul Celan, Parla anche tu, in Id., Di soglia in soglia (1955), trad. it. Giulio Einaudi Editore, 1996.
  10. Numerose le edizioni. Qui ci si è rivolti a Leon Battista Alberti, De Pictura (1435), a cura di Cecil Grayson, Laterza, Bari 1980.
  11. Giovanni Oberti, Tra spettatore e superficie (Sposalizio della Vergine), 2008. https://www.youtube.com/watch?v=bVcfRW5W7Gc (ultima consultazione 21 ottobre 2019).
  12. Francesca Alfano Miglietti, Fabio Mauri. Schermi, catalogo della mostra, Galleria Milano, Milano 2007. All’interno del volume è stato anche pubblicato il testo di Fabio Mauri Senza (significati a me noti delle proiezioni su oggetti e corpi), tratto da Le proiezioni, La Nuova Foglio, Macerata 1978.
  13. Chiara Dezzi Bardeschi (a cura di), Abbeceddario minimo ‘ananke. Cento voci per il restauro, Altralinea, Firenze 2017.
  14. Per quanto riguarda le forchette, il riferimento è alla già citata opera Senza titolo (Forchette, polvere), del 2006; i bicchieri invece Oberti li ha usati in Senza titolo (Archi di dama), realizzati per la prima volta nel 2013, dove il calcare, lasciato depositare nel tempo, ricopre interamente la superficie interna del vetro.
  15. Man Ray, Oggetti d’affezione, trad. it. Einaudi, Torino 1970.
  16. Charles Simic, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell (1992), trad. it. Adelphi, Milano 2005.
  17. Giovanni Oberti, con Daniele Cremaschi e Andrea Giansanti, Respiri di Realtà Aumentata, Laboratorio del Dubbio, Torino, 12-21 aprile 2016.

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Bianca Trevisan

Bianca Trevisan

Bianca Trevisan è curatrice della Galleria Milano e insegna Storia della fotografia all'Università Cattolica di Brescia. Ha conseguito un dottorato in Storia dell’arte contemporanea e si interessa di visual culture e questioni legate al femminismo, all'arte politicamente impegnata e ai…

Scopri di più