Pittura lingua viva. Parola a Luigi Presicce
Viva, morta o X? 64esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Luigi Presicce (Porto Cesareo, 1976) vive a Firenze. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Lecce, scegliendo deliberatamente di non discutere la tesi. Il suo lavoro è stato influenzato dai suoi studi indipendenti. Nel 2007 ha partecipato al Corso Superiore di Arti Visive (CSAV) presso la Fondazione Antonio Ratti di Como con Joan Jonas. Nel 2008, nell’ambito di Artist in Residence, ha partecipato al workshop in Viafarini a Milano con Kim Jones. A Milano, nel 2008 ha fondato, con Luca Francesconi e Valentina Suma, Brownmagazine e in seguito Brown Project Space, per il quale cura la programmazione. Nel 2011 con Giusy Checola e Salvatore Baldi ha fondato a Lecce Archiviazioni (esercizi di indagine e discussione sul Sud contemporaneo). Nel 2012 ha preso parte a Artists in Residence al MACRO di Roma, estendendo il suo invito ad altri nove artisti (Laboratorio). Dal 2010, con Luigi Negro, Emilio Fantin, Giancarlo Norese e Cesare Pietroiusti è coinvolto nel progetto Lu Cafausu che promuove La festa dei vivi (che riflettono sulla morte) e con il quale è stato invitato da AND AND AND a dOCUMENTA13, Kassel. Dal 2016 è membro fondatore della Fondazione Lac o le Mon a San Cesario di Lecce. Con Francesco Lauretta dal 2017 fa parte della Scuola di Santa Rosa, una libera scuola di disegno en plein air basata a Firenze e New York. È stato selezionato per lo Studio Program 2018 presso Artists Allianc Inc, New York e TAD Residency al Monastero del Carmine, Bergamo. Ha ideato e curato nel 2018 e 2019 Simposio di pittura presso la Fondazione Lac o le Mon, una residenza/piattaforma centrata sulla pittura italiana degli ultimi trent’anni. Ha curato nel 2018 Extemporanea-play a Trebisonda Spazio per l’Arte Contemporanea (Perugia) e Forme uniche nella continuità dello spazio alla Rizzuto Gallery (Palermo), nel 2019 Facciatosta Records di Enne Boi presso Toast project space (Firenze). Ha realizzato performance presso la Fondazione Claudio Buziol (Venezia, 2010), Thessaloniki Performance Festival, Biennale 3 (2011), Reims Festival Scènes d’Europe, Frac Champagne-Ardenne (2011), Màntica Festival (Cesena, 2011), Corpus, MADRE (Napoli, 2012), We Folk ‒ Drodesera Festival, Centrale Fies (Dro, 2012), Art City Bologna 2013, CastelloInMovimento, Castello di Fosdinovo (2013), ARTDATE 2014 (Bergamo, 2014), Il teatro dei luoghi Fest (Lecce, 2014), Kunsthalle Osnabruck (2015), MAMbo Bologna (2015), Museo Marino Marini (Firenze, 2015), Tenuta dello Scompiglio (Vorno-Capannori, 2016), Le Murate (Firenze, 2016), Palazzo Trevisan degli Ulivi – Istituto Svizzero di Cultura (Venezia, 2017), Fondazione Lac o le Mon (San Cesario di Lecce, 2017 e 2018), MAP – Museo de Arte Popular (Città del Messico, 2018), Museo di Palazzo Pretorio (Prato, 2018), Cuchifritos Gallery (New York, 2019), Pelanda, Mattatoio (Roma, 2019), Metodo (Milano, 2019). Ha vinto l’Epson Art Prize, Fondazione Antonio Ratti, Como (2007), Premio Talenti Emergenti, CCC Strozzina, Palazzo Strozzi, Firenze (2011), Long Play, MAGA, Gallarate (2012), Icona, ArtVerona, Verona (2014), Level 0, ArtVerona, Verona (2015). È stato finalista al Premio Moroso, seconda e sesta edizione con menzione speciale (2011, 2017), al Premio Maretti, seconda edizione con menzione speciale, L’Avana (2014), al Premio Fondazione VAF, settima edizione, Germania (2016) e al Premio Anna Morettini, prima edizione, Parigi (2017).
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Tramite la mia insegnante di educazione artistica alle medie, Anna Canfora. Aveva la capacità di far appassionare tutti alla pittura, anche i più disgraziati, in senso artistico. Ci dava delle immagini dei maestri dell’Impressionismo e ci faceva fare delle copie a olio… Tutti, proprio tutti, si dovevano cimentare con la pittura, anche chi ora è diventata una mamma, un pescatore o è finito in galera ed è ancora lì. Il disegno è arrivato prima, invece. Già a quattro anni disegnavo scheletri, tombe e cimiteri, con l’imbarazzo di mia sorella di fronte alle sue amiche.
Quali sono i maestri e gli artisti cui guardi?
Le fonti di ispirazione per me sono sempre di natura pittorica, sia che debba realizzare un dipinto sia una performance. Provo sempre a pormi in una condizione di ascolto rispetto a chi considera la performance come qualcosa di molto vicino al recitare la poesia (di Marx) in piedi sulla sedia di fronte ai parenti, ma poi mi fa solo tenerezza e penso che io con la performance di questo tipo non c’entro proprio nulla… Per non parlare poi di quelli che lavorano sui limiti corporei o altre sciocchezze del genere. Considero il mio lavoro come una continua ricerca mirata al ritratto, inteso come genere, e sulla base di questo creo le mie incursioni nella Storia, la grande Storia, la storia di tutti. Non so se ci sono dei maestri che considero tali o, appunto, dei personaggi storici in grado di motivare il mio interesse verso qualcosa o qualcuno. Di fatto, da molti anni, sto lavorando senza sosta a Le Storie della Vera Croce, ma né Agnolo Gaddi né Piero Della Francesca sono i miei miti. Per fare un dipinto invece di solito guardo altri ritratti, li osservo proprio attentamente e poi ne viene fuori una versione completamente mia, come il Ritratto di Ignoto Marinaio di Antonello da Messina, che, in sostanza, è un ritratto di mio padre, marinaio ignoto. Forse, però, non ho risposto alla domanda… Se devo snocciolare dei nomi allora credo che dovrei citare solo persone che conosco personalmente, perché non sono interessato all’opera d’ingegno avulsa dall’ingegnere. Mi piacciono gli acquerelli di Francesco Clemente, la deriva sacra di Francesco De Grandi, i disegni veloci di Francesco Lauretta. Fin qui, secondo la statistica, se uno non si chiama Francesco non mi piace. In effetti, a ben pensare, ho fatto un figlio con una ragazza che si chiama Francesca.
Dal tableau al tableau vivant e ritorno, dai paesaggi ai Maghi ai ritratti… Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Ormai credo che i miei “passaggi” siano una cosa nota. Nel 2005 avevo smesso di dipingere e stavo iniziando a lavorare su quello che sarebbero state le mie prime performance, quando nel 2007 ho partecipato al Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti con l’insegnante più appropriata che poteva capitarmi: Joan Jonas. Qui ho ricevuto la patente di performer e, di lì a poco, nel 2008 ho avuto l’onore di conoscere anche Kim Jones (Mudman, non lo stilista) con il quale abbiamo anche fatto lavori a quattro mani. Successivamente, ho avuto quasi due anni di pausa lavorativa perché nel frattempo con Luca Francesconi avevamo dato il battesimo al primo spazio di progetto di Milano (Brown project space), dando il la alla nascita di tutta la scena indipendente meneghina. Il mio lavoro non ha avuto cambiamenti di genere, anche se ho affrontato temi con tecniche diverse, come appunto la pittura, la scultura o la performance. Anche nel paesaggio ho cercato di riportare attraverso il candore del bianco una sorta di mascheramento teatrale che era già nei ritratti. Nel corso degli anni il valore del mio lavoro è stato sempre riconosciuto, fin dalla fine del secolo scorso, quando arrivato a Milano ventenne ho avuto la copertina dello speciale Flash Art sulla pittura italiana (all’epoca unico punto di riferimento per quanto riguardava l’editoria d’arte, se escludiamo Tema Celeste, che ha avuto una parabola relativamente breve). Poi ancora un’altra copertina di Flash Art con una performance diversi anni dopo (quando iniziavano a spuntare tutti i concorrenti editoriali che oggi conosciamo). Non ho sentito forti cambiamenti nel mio percorso, tranne, forse, tre anni fa, quando ho ripreso a dipingere di nuovo tutti i giorni, senza mostrare mai niente a nessuno. Dipingere senza che nessuno se lo aspetti è una libertà rara, come permettersi di amare qualcuno che non sa che esisti. È tutto amore a fondo perduto, puro.
Come è nato il tuo interesse per cultura e iconografia popolare? E come alchimia, esoterismo e simboli massonici possono essere inseriti in opere che vogliono parlare al e del contemporaneo?
Bisognerebbe parlare di cosa sia veramente contemporaneo a questo punto e magari farsi la domanda se la nonna che fa la pasta fatta in casa su Instagram ha lo stesso appeal di una sciacquetta fotografata bene a bordo piscina. Di fatto sono un uomo del Sud, all’antica, e come tale apprezzo sia le nonne che fanno la pasta che le sciacquette, ma forse più le nonne. Sono cresciuto in un piccolo paesino del Salento dove i riti, le feste popolari, i misteri e quel famoso “Mondo magico” (di cui si parlava “d’improvviso” un paio di anni fa a Venezia) fanno parte della mia piccola storia personale. Non c’era angolo di casa dove si poteva guardare senza incontrare un Santo o una Madonna, la foto di un defunto o un altarino. Ernesto de Martino ci ha tirato fuori diversi libri da questo Sud arretrato e magico e noi bambini a scuola li abbiamo letti tutti, altro che Promessi Sposi. La tarantata Maria di Nardò a fronte di Lucia Mondella: un bello scontro davvero. Con dei trascorsi del genere ‒ processioni con santi in spalla e riti propiziatori contadini ‒ che ne doveva venire fuori? A ognuno il suo destino. Chi è nero, dipinge i neri, chi è bianco, dipinge i bianchi. E guai se le cose si mischiano! Questo me lo hanno insegnato a New York. Poi mi sono messo a dipingere Marilyn nere.
Cosa rappresentano per te la maschera, il travestimento, la teatralità?
Né più e né meno quello che ho appena detto: un’appartenenza, forse, a una radice storica comune a tutti i Sud del mondo e forse a qualcosa di profondamente personale. Cresciuto ad aragoste e misteri (ricordo ai più che mio padre era pescatore), la mia formazione è avvenuta a Lecce negli Anni Novanta, quando un certo tipo di teatro si stava affermando. La Socìetas Raffaello Sanzio e il Teatro Valdoca hanno fatto da guida al mio cammino artistico, ma non solo, da qui si sentivano ancora gli echi di Eugenio Barba e di Carmelo Bene che, dal suo balcone di casa a Otranto, inveiva contro il barista del bar di sotto per far sistemare i tavolini in modo simmetrico altrimenti la visione scostumata lo mandava ai matti! E dire che non usciva neanche mai alla luce del sole, aveva tende alle finestre simili a quinte di teatro, come faceva a vedere ‘sti tavolini non si sa.
E cos’è per te il sacro?
L’amore è sacro, la bellezza è sacra. L’amore dei figli per i genitori è sacro e quello dei genitori per i figli. Di libri sul sacro ne ho letti milioni in gioventù, ma non mi hanno reso una persona migliore.
Cosa ti affascina dei rituali? Perché recuperarne forme, schemi e immaginari?
In realtà non ne sono affatto interessato, mi piacciono solo le forme armoniche.
Sei religioso?
Se credere fortemente in qualcosa vuol dire essere religioso, sì. Non sono un fanatico di Cristi alla croce e Madonne addolorate più di quanto non lo sia di Maradona o Francesco Hayez (vedi? Un altro Francesco…).
Che ruolo ha il disegno nella tua pratica e in relazione alle tue opere?
Non ho disegnato per anni interi e oggi non passa giorno senza che io non prenda la matita in mano e lasci un segno, un piccolo volto su uno dei tanti quaderni. Quando non riesco a dipingere, cerco almeno di fare un disegno per avere la coscienza pulita e sentirmi in pace con i posteri. Credo però vivamente che il disegno sia già un’opera; se con la pittura mascheri, con il disegno smascheri. Da un singolo disegno si vede tutto, tormenti, gioie e stati di grazia, che non sempre ci sono. Per le performance faccio pochi disegni, giusto se devo spiegare al costumista come voglio un costume o all’attrezzista uno strumento di scena. Per di più il mio lavoro si chiarifica tramite apparizioni che si palesano nel dormiveglia. Non ho bisogno di disegnare in senso progettistico, semmai prendo appunti scritti e poi “disegno” direttamente con gli attori durante le prove.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Il mio modo di pitturare è lento e veloce al contempo, stratifico molto, ma lo faccio con una dedizione tale che mi sento completamente assorbito dal quadro e non mi stacco mai da questo finché non è giunto a un livello di saturazione ottimale. Non mi piace riprendere le cose il giorno dopo, principalmente perché non avrei lo stesso stato d’animo del giorno precedente. Se inizio, devo finire il giorno stesso. Semmai mi capita solo di fare un disegno molto dettagliato prima e poi riprenderlo con la pittura il giorno dopo. Ogni quadro deve essere finito in un solo giorno al massimo, altrimenti mi viene voglia di farne un altro. Se non sono sicuro di finire, non inizio neanche e mi dedico ad altri piaceri.
Ci sono formati o tecniche che prediligi? Nei tuoi primi lavori sperimentavi anche tecniche e materiali, acrilici su tessuto, affresco su tela o tessuto…
Sì, ho iniziato con una strana tecnica a fresco su tessuto che mi permetteva un risultato sgranato senza dover strisciare sopra la pittura con il pennello pulito (alla Richter per intenderci). Ora, dopo averlo usato solo alle scuole medie, ho ripreso con l’olio, ma quello che riesco a fare con l’acrilico su carta è sempre straordinariamente sorprendente. I formati ora sono da cavalletto, sono diventato un pittore composto, mi siedo, dipingo, bevo qualche cocktail e quando ho finito pulisco tutto come Renoir, perfino la tavolozza viene portata a lucido. I grandi formati mi piacciono, ne ho fatti fino a una quindicina di anni fa, ma ora faccio un po’ fatica soltanto a pensarla una tela grande con una figura intera.
Ci descrivi il tuo studio? Che ruolo ha per te?
Dopo lo studio di Milano, una specie di wunderkammer inaccessibile a più di una persona sola, non ho avuto studio per diversi anni dopo essermi trasferito a Firenze. Poi ho vinto un bando e per due anni sono stato in una cella di carcere nell’ex complesso penitenziario de Le Murate, ma, appunto, era una cella e io ci metto circa ventiquattr’ore a riempire una stanza (fino al soffitto) di ninnoli e tutto quello che compro o raccatto. Ora, da un anno a questa parte, ho uno studio molto bello in Piazza del Carmine accanto a Masolino e Masaccio. Già questo basterebbe a spiegare la mia idea di contemporaneo.
Come nascono i titoli delle tue opere?
Di solito il titolo di un’opera serve a indirizzare lo spettatore su cosa deve pensare guardando un quadro o una performance, ma se spesso i quadri procedono per cicli, le performance hanno bisogno davvero di una linea guida, come: L’invenzione del Busto, L’annunciazione di Pitagora agli acusmatici, La donazione della cappella, Tradurre l’incanto agli uccelli, In hoc signo vinces, Sant’Elena ritrova e riduce in pezzi il Sacro Legno, Il sogno della cascata di Costantino, La caduta di Atlante con legno a lato diritto e gallo a lato manco, La vendita delle fanciulle ai mercanti, La nascita del Minotauro, ecc…
Nei tuoi lavori hai introdotto un preciso ragionamento su visione e fruizione dell’opera: a volte la rendi accessibile solo a uno o due spettatori, altre attraverso un buco… Da cosa deriva l’imposizione di questi limiti? O si tratta invece di una ulteriore possibilità per una corretta e migliore lettura dell’opera stessa?
Immagina un concerto dei Pink Floyd per una persona sola. Questa persona non si sentirà protetta dalla massa, ma sarà soggetta a tutta una serie di emotività che la metteranno completamente a nudo di fronte ai Pink Floyd e uguale faranno i Pink Floyd che si sentiranno nudi sul palco di fronte a questo unico spettatore, costretti a interpretarne i sentimenti. Non mi piace la spettacolarizzazione dell’arte, preferisco lavorare mesi su una cosa e poi farla vedere solo a una coppia di bambini o, nel caso il committente lo richieda, a uno spettatore alla volta accompagnato per tutto il percorso fino a un punto di vista (rinascimentale) che scelgo io stesso. C’è una dittatura sullo sguardo in questo, ma credo che alla fine l’esperienza che conta di più sia quella vissuta da disarmato a disarmante, dove il pubblico si lascia completamente in balia dall’opera.
Il cinema, la musica, la letteratura influiscono sui tuoi lavori e sulla tua poetica? Pier Paolo Pasolini e Carmelo Bene, che citavi prima, sono due tuoi riferimenti…
C’è un certo tipo di cinema che mi ha molto influenzato, quello ipernarrativo di Edgar Reitz, per esempio, o quello super estetico di Sergej Parajanov. Non ascolto musica quando lavoro e leggo solo biografie o autobiografie. Sono interessato alla vita che c’è intorno a un’opera, non alle chiacchiere che si dicono sulla stessa a posteriori. Le biografie aprono degli spaccati sulla vita reale che spesso mi portano a immaginare delle cose che poi utilizzo nel mio lavoro. Sono forme di ritratto e in quanto tali le considero utili alla mia gestazione. Per quanto riguarda Pier Paolo Pasolini, dovrò citare un insulto che mi fecero a Venezia un paio di anni fa: mi diedero del Pasolini cinquant’anni dopo. Lo presi davvero con gioia. Di Carmelo cosa devo dire? Ho indossato il suo gessato di nozze per una performance (mi stava a pennello) e usato oltre trenta costumi di scena originali dall’Otello, al Pinocchio ai vari Hamlet. Questa la parte meccanica, poi viene quella emotiva e lascerei veramente la parola a chi, come me, ha avuto l’occasione unica di udirlo quando era vivo. I filmati su YouTube sono anni luce da quella sensazione che ti scioglieva le ossa quando era sul palco.
Come portare avanti il dialogo con l’antico e la tradizione? Penso alla performance al Museo di Palazzo Pretorio a Prato o al tuo progetto per il magazine DUST in cui usi l’immagine dell’Origine du monde di Courbet…
Oggi si pensa che tutto debba essere rapportato al presente e a quello che le riviste e i siti dicono che sia il pensiero corrente, ma anche questo pensiero, seppur disarcionato, linearmente è figlio della storia e quindi ha un flusso temporale. Basta decidere da dove inizia il proprio. Se si inizia a contare dal post internet (già vecchio da morire), allora è chiaro che rivedere la fica pelosissima di Courbet fa preistoria. In verità però non ci siamo evoluti molto da allora, facciamo ancora i figli con i vecchi strumenti, come li facevano i cavernicoli, solo che adesso abbiamo imparato a mandare i vocali. Tornando a DUST, non credo che L’origine du monde sia l’unico riferimento “antico” presente, forse solo il più evidente. Tutte le performance presenti nel servizio sono tratte da opere pittoriche di Veermer (La mezzana), Balthus (Les enfants Blanchard Hubert et Thérèse), Giotto (Compianto sul Cristo morto), Ingres (Il bagno turco) o altro come la fotografia di Annie Leibovitz con John Lennon avvinghiato a Yoko Ono. Quello che invece è accaduto a Palazzo Pretorio è un altro processo ancora: ho chiesto ai ragazzi dell’Accademia dell’immobilità di lavorare su un momento successivo o precedente rispetto agli accadimenti presenti nell’opera da loro scelta. I risultati sono stati narrativamente coerenti e lineari, vedi la presenza dell’arcangelo Gabriele nella sala delle Natività con tanto di cartiglio in bocca che ascolta Like a Virgin di Madonna dal telefono.
Raccontaci delle esperienze della Scuola di Santa Rosa con Francesco Lauretta e del Simposio di pittura da te curato per la Fondazione Lac o Le Mon.
Il Simposio di pittura nasce succedaneo alla Scuola di Santa Rosa e da questa prende lo spirito e gli intenti. In un martedì di ottobre del 2017 decido di chiamare Francesco Lauretta e di invitarlo sul Lungarno Santa Rosa a disegnare all’aperto: per stare insieme, visto che siamo entrambi esuli in questa città, e raccontarci qualcosa mentre si prova a disegnare i passanti o il paesaggio. Tornati a casa, dopo questo primo incontro, capiamo subito che questa cosa va rifatta e con regolarità. Decidiamo allora di rivederci tutti i martedì, cascasse il mondo. Di fatto da allora (escluso il mese di agosto) non credo sia passato un martedì senza incontrarci. A noi si sono aggiunti quasi da subito alcuni studenti dell’Accademia e gente di vario rango per passaparola. Ora la Scuola di Santa Rosa è un appuntamento per molti che vogliono prendersi la briga di sbagliare o semplicemente regalarsi del tempo per fare un ritratto a fondo perduto. La Scuola è libera, nessuno insegna niente a nessuno e chiunque può venire e fare quello che vuole, anche leggere o chiacchierare e basta. Nessun giudizio, ma solo l’armonia dello stare insieme al Santa Rosa Bistrot (sull’omonimo Lungarno). La Scuola di Santa Rosa è stata fatta oltre che a Firenze anche a Roma, Lecce, Milano, Corigliano Calabro e New York (nella Grande Mela in maniera più continuativa al Sel Rrose, un oyster bar dove servono un cocktail che si chiama sorprendentemente Santa Rosa!). La Scuola avviene sempre senza chiedere il permesso ai gestori dei bar, è un incontro spontaneo e come tale non ha bisogno di permessi.
E per quanto riguarda il Simposio di pittura?
Il Simposio di pittura invece è arrivato alla sua seconda edizione e si svolge all’interno della Fondazione Lac o le Mon, una casa nobiliare di fine Ottocento (400 metri quadrati su due piani, completamente autosostenibile) situata nelle campagne salentine. Qui ogni anno vengono selezionati, esclusivamente secondo il mio gusto personale, più o meno i venti pittori più dotati del panorama italiano degli ultimi trent’anni. Si vive insieme a stretto contatto, mangiando insieme, dormendo insieme, cucinando a turni, facendo la spesa e tenendo pulita la casa tutti insieme mentre si parla di pittura e la si fa. Non ci sono regole, nessuno è obbligato a dipingere, ma, alla fine, tutti si trovano a gruppi o isolati in un angolo dell’immenso giardino (1.700 metri quadrati) a disegnare o ritrarre qualcosa o qualcuno. Di giorno chi vuole va al mare, sullo Jonio quando è Tramontana e sull’Adriatico quando è Scirocco. La sera invece si sta in giardino intorno al grande fuoco a forma di stella (opera di Calori & Maillard) o si balla fino all’alba. Il “bar” non chiude mai e quasi ogni sera c’è un dj set “improvvisato” da me o da altri. Quest’anno sono venute a suonare anche le Playgirls from Caracas e Dj Camorra. Tra le consuete letture portfolio abbiamo anche ospitato una lecture di Leah Singer che si è presentata con suo marito, nostra vecchia conoscenza, Lee Ranaldo, il chitarrista dei Sonic Youth. Il Simposio è un’esperienza unica nel suo genere che lascia sempre scossi tutti i partecipanti. Nessuno penserebbe alla pittura come qualcosa di aggregativo, invece è proprio quello che accade, le generazioni diverse si incontrano, nascono amicizie, amori, scambi di opere, interventi a più mani, screzi e forme di reciproco affiatamento. Stiamo inoltre raccogliendo un discreto materiale video con interviste a tutti i partecipanti, trentacinque domande uguali per tutti, che in questi due anni hanno messo a nudo almeno tre generazioni di pittori italiani. Quando finisce il Simposio tutti vorrebbero non andarsene mai dalla casa e mentre fuori il mondo corre a un’altra velocità, lì si è vissuta la cosa più sovversiva che si potrebbe immaginare: la pittura.
Cosa significa quindi fare pittura oggi?
Oggi è facile. Quando ho iniziato io quasi ti sputavano se dicevi di essere un pittore. C’era un senso di disgusto nei confronti della pittura che per fortuna è mutato e chiunque può esercitare questa pratica con serenità. Certo si vendono molti meno quadri e qualcuno non ne ha mai venduto ancora uno, ma almeno il linguaggio si è liberato dai pregiudizi e non ci si vergogna più a dichiararsi pittori. Sul significato invece di fare pittura oggi posso dire solo che se c’è un significato non va neanche cercato, quando si fanno cose belle è inutile farsi tante pippe. La pittura si basta da sé e basta a chi la fa.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Notevole direi, anche se non ci sono, o ce ne sono pochi che spiccano sul panorama internazionale, di fatto la pittura italiana meriterebbe un’opportunità che forse non ha mai avuto veramente, in passato per incompetenza e ora per “improvvisata” competenza. Molti dei pittori che conosco non sono supportati dal mercato, non hanno una galleria e fanno fatica a vivere la spensieratezza della pittura. Il paradosso è che neanche io, che lavoro al mio livello da venticinque anni, ho una galleria e vivo solo grazie a dei collezionisti illuminati, che credono in me e mi permettono di stare talune volte senza pensieri. Io, a differenza di molti giovani, ho visto almeno la fine del medio/piccolo mercato in Italia, quando non facevi in tempo neanche a finirli i quadri che te li portavano via, strappandoteli dal cavalletto. I giovani artisti ora si sono trovati direttamente a vivere una crisi economica che, grazie al cielo, sta passando, ma che di certo ha condizionato molto l’attuale mercato dell’arte italiano. Poi ci sono altri mille perché ai quali è difficile dare una risposta. Se penso a Gravity fanatic di Dana Schutz capisco in un attimo cosa fa di un quadro qualsiasi un’opera straordinaria e cosa manca alla pittura italiana per fare il grande salto. Non la qualità pittorica, non l’occhio verso la storia, non la leggerezza, ma la scintilla. Che cos’è, poi, in definitiva, ‘sta scintilla? Boh?! Qualcuno crede sia in alcuni curatori, qualcun altro in alcuni galleristi o riviste. Io credo sia solo nello Spirito Santo che è D’io e dà la forma a tutte le cose.
‒ Damiano Gullì
LE PUNTATE PRECEDENTI
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Pittura lingua viva#8 ‒ Valentina D’Amaro
Pittura lingua viva#9 ‒ Angelo Sarleti
Pittura lingua viva#10 ‒ Andrea Kvas
Pittura lingua viva#11 ‒ Giuliana Rosso
Pittura lingua viva#12 ‒ Marta Mancini
Pittura lingua viva #13 ‒ Francesco Lauretta
Pittura lingua viva #14 ‒ Gianluca Di Pasquale
Pittura lingua viva #15 ‒ Beatrice Meoni
Pittura lingua viva #16 ‒ Marta Sforni
Pittura lingua viva #17 ‒ Romina Bassu
Pittura lingua viva #18 ‒ Giulio Frigo
Pittura lingua viva #19 ‒ Vera Portatadino
Pittura lingua viva #20 ‒ Guglielmo Castelli
Pittura lingua viva #21 ‒ Riccardo Baruzzi
Pittura lingua viva #22 ‒ Gianni Politi
Pittura lingua viva #23 ‒ Sofia Silva
Pittura lingua viva #24 ‒ Thomas Berra
Pittura lingua viva #25 ‒ Giulio Saverio Rossi
Pittura lingua viva #26 ‒ Alessandro Scarabello
Pittura lingua viva #27 ‒ Marco Bongiorni
Pittura lingua viva #28 ‒ Pesce Kethe
Pittura lingua viva #29 ‒ Manuele Cerutti
Pittura lingua viva #30 ‒ Jacopo Casadei
Pittura lingua viva #31 ‒ Gianluca Capozzi
Pittura lingua viva #32 ‒ Alessandra Mancini
Pittura lingua viva #33 ‒ Rudy Cremonini
Pittura lingua viva #34 ‒ Nazzarena Poli Maramotti
Pittura lingua viva #35 – Vincenzo Ferrara
Pittura lingua viva #36 – Luca Bertolo
Pittura lingua viva #37 – Alice Visentin
Pittura lingua viva #38 – Thomas Braida
Pittura lingua viva #39 – Andrea Carpita
Pittura lingua viva #40 – Valerio Nicolai
Pittura lingua viva #41 – Maurizio Bongiovanni
Pittura lingua viva #42 – Elisa Filomena
Pittura lingua viva #43 – Marta Spagnoli
Pittura lingua viva #44 – Lorenzo Di Lucido
Pittura lingua viva #45 – Davide Serpetti
Pittura lingua viva #46 – Michele Bubacco
Pittura lingua viva #47 – Alessandro Fogo
Pittura lingua viva #48 – Enrico Tealdi
Pittura lingua viva #49 – Speciale OPENWORK
Pittura lingua viva #50 – Bea Bonafini
Pittura lingua viva #51 – Giuseppe Adamo
Pittura lingua viva #52 – Speciale OPENWORK (II)
Pittura lingua viva #53 ‒ Chrysanthos Christodoulou
Pittura lingua viva #54 – Amedeo Polazzo
Pittura lingua viva #55 – Ettore Pinelli
Pittura lingua viva #56 – Stanislao Di Giugno
Pittura lingua viva #57 – Andrea Barzaghi
Pittura lingua viva #58 – Francesco De Grandi
Pittura lingua viva #59 – Enne Boi
Pittura lingua viva #60 – Alessandro Giannì
Pittura lingua viva #61‒ Elena Ricci
Pittura lingua viva #62 – Marta Ravasi
Pittura lingua viva #63 – Maddalena Tesser
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