Nel labirinto di Emilio Prini. A Torino
La Fondazione Merz ospita la prima mostra dedicata a Emilio Prini dopo la morte. Riunendo le sue opere più emblematiche.
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Emilio Prini (Stresa, 1943 ‒ Roma, 2016) era un artista misterioso, difficile, estremo. Aveva fatto del rigore la sua cifra fin dalla partecipazione al gruppo dell’Arte Povera, a soli ventuno anni. Poche le opere e le mostre, e negli ultimi anni una malattia terribile ha reso sempre più rare le occasioni di incontro con Prini, che viveva a Roma in compagnia di poche persone che lo accudivano, come Donatella Scalesse e Mario e Dora Pieroni. “Un artista che si muove nel vuoto”, lo ha definito Germano Celant, che lo inserì nella mostra Arte Povera + Im spazio alla galleria La Bertesca di Genova nel 1967, mentre per Luigi Ontani, suo amico e sodale, Prini è stato “l’artista che vive l’Arte Povera in maniera integrale”. Molto stimato da Hans Ulrich Obrist, Prini non aveva ancora avuto una retrospettiva dopo la sua morte: si sono impegnate in questa sfida Beatrice Merz e Timotea Prini, figlia dell’artista, curatrici della mostra in corso fino al 9 febbraio alla Fondazione Merz, che accosta quaranta opere di Prini, realizzate tra il 1966 e il 2016 e riunite per la prima volta insieme. Un’operazione eccezionale, che risponde però a criteri espositivi adatti a presentare le opere nella maniera più consona al pensiero di un artista che aveva fatto della sottrazione il suo credo.
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Emilio Prini, Punti ipotesi sullo spazio totale, Genova, Galleria la Bertesca, 1968. Collezione privata
UNA RICERCA ESTREMA
“L’oggetto di questo percorso espositivo è la ricerca estrema che ha caratterizzato la produzione di Prini”, spiegano le curatrici, “sviluppata con molteplici media tra cui la fotografia, la scrittura, la poesia visiva, il testo sonoro, e articolata in diversi macro temi: la negazione e l’annullamento dell’opera, il rapporto vuoto-pieno, la standardizzazione dell’oggetto e della misura, la contrapposizione tra visibile e invisibile”. Concetti che valgono come coordinate geografiche necessarie per muoversi nell’universo-Prini, mirabilmente evocato nella sua apparente confusione dalla mostra, dove si accenna anche al rapporto personale di Emilio con Mario e Marisa Merz, ricordato da alcune opere tra le quali due sculture di Mario (Is space bent or straight?, 1973 e Bicchiere trapassato, 1967) e La conta (1967), un video di Marisa molto vicino al pensiero di Prini. Passato l’ingresso, occorre armarsi di pazienza e dimenticare l’orologio se si vuole visitare la mostra come avrebbe voluto Prini: sul foglio-giornale fornito all’ingresso si trova un elenco di opere (senza immagini) contrassegnate da un numero, riportato in piccolo sulle pareti in corrispondenza delle opere.
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Emilio Prini, Alieno, 1968. Collezione privata
LE OPERE
Una vera e propria caccia al tesoro nel labirinto Prini, dove non è facile trovare l’uscita: tra le opere tridimensionali vanno segnalati gli studi sullo spazio, di ambito squisitamente poverista, come Perimetro misura a studio stanza (1967), Perimetro d’aria (1967), Gradino tipo per porta (1967), Muro in curva (1967/1995) e Scale che scendono al fiume (alluvione) (1967/1995). Lavori che potremmo definire “ascetici”, che trovano il loro controcanto in alcune importanti opere a parete, come Standard (1969), Particolare da “Città-campagna Genova” (1969) o Racconto che si fa da solo (1969). Interessante anche la produzione degli Anni Settanta e Ottanta, quando l’artista si concentra sul tema dell’autoritratto pur negando o trasformando il suo volto, come l’ironico Ritratto di Napoleone (1974), Manifesto per una sua mostra (da Goya) (1979) ma anche la serie dei Fermacarte (1995), esposti a Fermi in Dogana, la retrospettiva all’Ancienne Douane di Strasburgo nel 1995: otto fotografie dove l’artista cammina o salta fermate da blocchi di piombo dello stesso peso di Prini. Tra le opere più recenti spicca La Pimpa il vuoto (2008), una serie di fotografie in bianco e nero tratte dal fumetto di Altan con dialoghi surreali ma ricchi di senso. “Non ho programmi, vado a tentoni, non vedo traccia di nascita dell’Arte”, sosteneva il più talebano degli artisti italiani, che finalmente può rivelare la sua luminosa radicalità grazie a una mostra da non perdere, in perfetta assonanza con la sua aspra e saturnina personalità.
‒ Ludovico Pratesi
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