Benvenuto imprevisto. Intervista all’artista Andrea Anastasio
In occasione della mostra in corso alla Galleria Giustini Stagetti a Roma abbiamo intervistato Andrea Anastasio, artista la cui ricerca indaga i campi e i linguaggi dell’arte e del design. Ci siamo fatti raccontare come questa relazione sia presente nel suo lavoro
La galleria romana Giustini Stagetti presenta i nuovi lavori di due designer che si sono distinti, negli ultimi anni, per la ricerca ai margini del design dei grandi numeri. Se Giacomo Moor si è cimentato per la prima volta con la lampada, con una collezione dal titolo Funambolo che persegue la leggerezza ispirandosi all’immaginario degli acrobati e degli artisti di strada, Andrea Anastasio, già protagonista nel 2015 di un solo show nella stessa galleria, porta all’attenzione del pubblico Un fiore per 12 mesi, un corpus di dodici pezzi unici in ceramica ridotti in frammenti e poi riassemblati, con l’obiettivo di accogliere l’imponderabile come parte integrante della creazione. Lo abbiamo intervistato.
Parlaci del tuo nuovo progetto.
Con Un fiore per 12 mesi porto avanti una ricerca che da tempo caratterizza il mio lavoro: l’intenzione di accogliere nel progetto l’inauspicabile – il temuto, l’imprevisto, il “non progettabile” – e di trasformare l’incidente – ciò che di sismico abita il profondo delle nostre coscienze, o ciò che la natura non ci permette di controllare – in fondamento costruttivo. Temi che ho già sentito la necessità di affrontare in altri lavori, come in Checkpoint nel 2014 e in Ri-frazioni da Luisa Delle Piane nel 2015, o ancora in Generazioni, per Corraini, nel 2018. La mostra alla galleria Giustini Stagetti si compone di dodici vasi in ceramica, pezzi unici, che nascono tutti dalla medesima forma: una sintesi compositiva dell’anfora romana e del moon-vase coreano. Dopo la prima cottura, ogni esemplare viene rotto e, successivamente, i suoi frammenti sono ri-assemblati in nuove interezze grazie allo smalto che, fondendo nella seconda cottura, assume ruolo strutturale, permettendo alle parti di legarsi saldamente tra loro. Attraverso questo processo, la forma originaria del vaso si apre ad infinite configurazioni, sia dal punto di vista sostanziale che funzionale. Ho scelto lo smalto bianco Della Robbia, sia perché cercavo un azzeramento cromatico, una pagina bianca, appunto, che mi permettesse di costruire delle immagini, sia come omaggio a uno dei momenti più alti della storia della ceramica italiana.
La ceramica è uno dei materiali più ricorrenti nelle tue ultime produzioni. Perché la scelta di questo materiale? Cosa rappresenta per te?
Dopo aver approfondito per molti anni la lavorazione del vetro, ho desiderato indagare le caratteristiche materiche e plastiche della ceramica, un’altra materia che per raggiungere il suo aspetto finale ha bisogno del fuoco. Dal 2017 ho avuto la possibilità di interagire con una realtà straordinariamente preziosa come quella della Bottega Gatti di Faenza. Lì ho cominciato a studiare la ceramica, a frequentare il MIC, il Museo Internazionale della Ceramica, che possiede una delle collezioni più importanti al mondo, nonché a nutrirmi della straordinaria esperienza di Gatti, che mi ha, generosamente, offerto la possibilità di frequentare la bottega, percorrendo assieme una speciale sperimentazione. La ceramica mi sembra una delle pagine privilegiate su cui, da secoli, viene scritta la grande narrazione dell’esistenza umana, con le sue passioni, i suoi fasti e le sue poetiche fragilità. Nei frammenti di questa lunga e vulnerabile storia è possibile immaginare altri vissuti, altri orizzonti, possibili utopie.
Cosa rappresentano invece il caso, l’incidente, l’imprevisto nei tuoi progetti?
Come ti dicevo prima, per me è diventato molto importante riflettere su ciò che non è controllabile e trasferirlo all’interno del progetto. Appartengo a una generazione che è nata quando la modernità – o meglio, una particolare idea di modernità, che avrebbe garantito la “felicitá”, il “benessere” e la “bellezza” per tutti – cominciava a mostrare i propri fallimenti e le proprie lacune. Tutta la mia formazione è stata connotata dalla comprensione dei limiti di una idea di benessere incentrata sulla capacità di acquisto del singolo individuo. Se la prima risposta fu per me l’impegno politico, successivamente sono stati l’approfondimento degli studi di filosofia e lo studio di discipline filosofiche ed estetiche non europee che mi hanno permesso di portare la ricerca e la riflessione nel cuore del turbamento che abita la profondità dell’animo umano. L’imprevisto, l’incidente, da questa prospettiva, allora, diventano delle opportunità di comprensione; delle possibilità di accogliere nell’orizzonte della conoscenza la consapevolezza della complessità dei fenomeni e l’intuire una possibile coesistenza con ciò che sfugge al controllo. Se ci pensi, tutte le narrazioni mitiche e religiose nascono da questo bisogno profondo di superare l’impasse della sofferenza psicologica generata dal sapere di avere una durata e di essere difronte al continuo cambiamento dell’esistenza, individuale e collettiva, senza poter controllare o gestire gli eventi potenti della natura dentro e fuori di noi.
Perché concentrarsi specificamente sulla forma del vaso?
Il vaso è da millenni una forma presente nel quotidiano dell’uomo. Ha avuto funzioni diverse ma ha sempre accompagnato la progressiva domesticità del divenire e ha rappresentato in quasi tutte le civiltà un legame diretto con la procreazione, con il grembo materno, con la gestazione. Il vaso custodisce vita (cibo, liquidi, piante e fiori), la protegge e la conserva nel tempo, anche quando si tratta di urne cinerarie che, non a caso, assumono quasi sempre quella forma. Nell’allestimento della mostra ho appeso su una parete della galleria una piccola foto che ho scattato un paio di mesi fa al National Museum di Beirut, rappresentante una sepoltura in anfora del V millennio a.C. In Egitto se ne trovano del VI millennio e in Italia anfore per la sepoltura sono documentate in vari siti archeologici dal IV millennio a. C. Si tratta, quindi, di rituali e di usanze molto arcaiche, che confermano ciò che abbiamo appena detto, cioè che il vaso, proprio perché associato alla gestazione e alla conservazione di ciò che é vitale, viene impiegato anche nel delicato compito di contenere la morte.
Il tuo lavoro si colloca a cavallo tra arte e design. Come vedi il dialogo tra queste discipline?
Pur consapevole della diversità degli approcci e delle modalità compositive di queste due discipline, ne ho sempre percepito la prossimità e, soprattutto, il potenziale convergere di temi, di indagini e di ricerche. Attualmente, alla luce dei profondi cambiamenti avvenuti all’interno di queste due realtà, penso che stia diventando sempre più evidente la necessità di scambi e di dialogo tra questi mondi. Il design (anche se oggi non è più così semplice comprendere cosa si intenda indicare con questa parola) vede associata la sua nascita con l’industria, ma già la generazione dei Radicals aveva messo in luce le complessità di questo linguaggio in divenire e anche il bisogno di leggere l’industria come qualcosa di antropologicamente più complesso. Certamente, a mio avviso, affinché non si nutrano ulteriori confusioni, bisogna precisare che con il termine design si fa riferimento a un territorio che da un lato confina con lo stile, la moda e il costume del tempo e dall’altro si pone come luogo della sperimentazione sempre più libera e sempre più complessa della realtà globalizzata del XXI secolo.
E il rapporto tra unicità tipica dell’arte e serialità propria del design?
Unicità e serialità già da parecchio tempo (e fortunatamente, aggiungerei) non rappresentano più i criteri e gli strumenti per definire ciò che è arte e ciò che è design. A tale proposito, colgo l’opportunità per dire che non è certamente la serie limitata o il pezzo unico da galleria, né tantomeno la preziosità dei materiali che possono definire la vicinanza del design all’arte. Per me il fenomeno abbastanza giovane delle gallerie che producono design è interessante solo se questa realtà va a riparare i danni e le lentezze dell’industria nel dialogare con i tempi e nel comprendere le sfide che il cambiamento continuo di scenari umani, culturali, economici genera. Al di fuori di questa possibilità, le gallerie di design sono solo vetrine di beni di consumo di lusso.
Come ti sei confrontato con lo spazio della galleria dove qualche hanno fa avevi invece presentato delle sedute? Quando pensi a una mostra o a un nuovo progetto lo pensi anche site specific?
Non parlerei di site specific, anche se la dimensione allestitiva è molto importante. Una mostra, per me, è un’occasione di riflessione su un aspetto della mia ricerca, o sulla ricerca in toto. È molto difficile, se non impossibile, per me lavorare a una mostra se questa non si incarna come la possibilità di portare avanti l’indagine sulle possibilità e sulle implicazioni del fare design oggi.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Al momento sto lavorando a una mostra con Stefano Arienti che ci è stata chiesta da Corraini, ed è una nostra riflessione sull’opera di Bruno Munari. Cureremo l’allestimento dei lavori di Munari e dei lavori che stiamo realizzando in relazione a Munari. Poi mi attende la presentazione di una nuova seduta per E tal’ a Stoccolma e a Milano in aprile, e le scenografie dell’opera Mare Nostrum di Mauricio Kagel, con le performance di Alessandro Sciarroni che debutterà nel luglio del 2020 a Marsiglia.
– Arianna Rosica
Roma // fino al 23 dicembre 2019
Un fiore per 12 mesi
Dodici pezzi unici di Andrea Anastasio
Galleria Giustini Stagetti
Via della Fontanella di Borghese 38
www.giustinistagetti.com
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