Cattelan, l’ironico e il tragico: intorno a una banana e oltre. L’opinione di Helga Marsala
Ludico, ma anche tragico. Lo spirito irriverente di Maurizio Cattelan non è esente da conformismi e ripetizioni stanche. Ma incarna un vuoto che racconta il presente, con le molte conquiste, le paure e i fallimenti. Rivelando insieme un bisogno pressante di cambiare, di cercare un’altra via. Una disamina, partendo alla banana di Art Basel.
L’hanno chiamata “provocazione”, più o meno tutti. Chi nel tentativo di trovarvi una logica serrata, una vocazione al graffio che possa (ancora) risultare interessante, e chi – al contrario – volendone marcare tutta la pochezza, tutto il vuoto pneumatico a misura di spettacolo, di chiacchiericcio social e di polemiche sotto i riflettori. L’ormai celebre “banana” di Maurizio Cattelan, incollata con del nastro isolante su una parete dello stand di Emmanuel Perrotin ad Art Basel Miami, per un’alta percentuale di commentatori – a voler fare una stima sommaria, di quelle che si fanno random sul web o al bar sotto casa – è non solo “una cagata pazzesca” di fantozziana memoria, ma nient’altro che un’operazione banale di marketing, autoreferenziale, sterile, buona per far parlare di sé e produrre un po’ di insano rumore. Provocando, per l’appunto.
CHE NE È DELL’OPERA?
L’arte? Non pervenuta, dicono i più. Oramai lontana dai parametri di bellezza e di emozione – che poi, vai a ristabilirli quei parametri, dopo l’incredibile tempesta della modernità – ma anche dalla forma, dall’evocazione, da quel peso specifico connesso alla storia e proiettato verso orbite future: è la mitologica aura, di cui Banjamin decretò la fine per mano della tecnica e che tutt’ora brucia, manca, risuona, come lo stesso Cattelan continua a rammentarci, tra cinismo, disincanto, urgenza di realtà.
E forse, al di là dell’aura stessa, si tratta o si dovrebbe trattare di una qualche sostanza vertiginosa, che lo stesso statuto di “opera d’arte” dovrebbe vantare, nella sua complessità millenaria. L’origine, il destino, la capacità di scavare e intercettare un riflesso sacro, che dall’”umano” arrivi e che vi ritorni per davvero. Anche zigzagando, mischiando, distruggendo e rimettendosi a costruire.
E invece no. Invece è tutto più semplice, immediato. Basta una banana sapientemente collocata sull’immaginario piedistallo di una tra le più potenti gallerie d’Europa, per generare ciò che la società è disposta a riconoscere come “capolavoro”. Contano le quotazioni, il peso delle celebrities, i salotti, le curve delle carriere, la scaltrezza delle intuizioni. Essere così nel cuore dell’inganno, fino al collo.
Una banana e un pezzo di scotch: ciò che conta è il gesto, l’idea. Così funziona, da Duchamp in poi, passando per il coraggio eccellente di un Manzoni, di un Klein, di un Fontana. E in questo caso l’idea è azzerare tutte le idee, portando a galla il vuoto divenuto meccanica indiscussa: un avvitamento dell’opera, particella del sistema, attorno al sistema medesimo e dunque a sé stessa. Autorivelandosi in quanto involucro, oggetto qualunque, pretesto minuto o giocattolo gigantesco (pensiamo a Jeff Koons), corpo organico o plastificato, ready made o copia artificiale, sempre nel nome del relativismo più radicale.
La ricetta comprende dosi di nichilismo, ironia, sferzate concettuali e un unico assunto: paghi, con moneta sonante, quanto è stato confezionato secondo le convenzioni dell’industria culturale, edificata sui dettami del mercato. Fosse anche un frutto, un water in oro 24 carati, un palloncino gigante in acciaio inox, un certificato con data, firma e autentica (cioè che effettivamente hanno portato a casa i collezionisti di Perrotin, sedotti dal fenomeno del giorno).
IL GIOCO DEL SISTEMA
Quella di Cattelan è ancora una volta una riflessione sull’art system, sul principio di autorialità nell’era postmoderna, sul definitivo crollo delle narrazioni potenti e dei significati profondi, sullo strapotere dei mercati nel cuore di un capitalismo spinto, globalizzato, smaterializzato, autofagocitatosi con febbrile rassegnazione ed erotico slancio: il tramonto (necessario) del classico, del virtuosismo, del valore formale, dei codici tradizionali, è sfociato in una dittatura del valore finanziario, deciso a tavolino e piazzato nel mondo reale. Ammesso che quel termine – reale – abbia ancora un’univoca ragione: evidentemente no.
Niente di nuovo sotto il sole. Il detto e il ridetto, trasformato via via in consapevolezza diffusa, dopo una serie di riflessioni colte, spesso ad opera di intellettuali visionari, e dopo che le ultime generazioni – Millenial e Post-Millennial – cresciute a Grande Fratello, Facebook, Chiara Farragni, Instagram e crisi economica, su questa condizione di vacuità e incertezza strutturale hanno vivacemente edificato la propria identità, immaginandosi magari uno zeitgeist alternativo, non di mero precipizio, come si erano prefigurati quei catastrofisti dei baby boomer.
Insomma, Cattelan prosegue a ricordarci chi siamo stati in questi anni liberi e violenti, chi siamo tutt’ora e in quale voragine stiamo sopravvivendo. Ma non lo fa con pedanteria, con intenzioni moraliste, né pensando di essere originale. Piuttosto mette in atto il meccanismo – tipicamente warholiano – della reiterazione sorda: se una critica c’è (e c’è, sul fondo, con tutto il mix di cupezza e leggerezza), non si consuma ex cathedra, non assume i toni della lezioncina, non sceglie la via della dimostrazione e dello scardinamento per conflitto. Anzi ripete, ossessivamente, quel che è. Inscenando il gioco fino alla fine, fino al grado zero, mettendo a nudo le cose senza esitare.
L’evidenza: non celebrata ma restituita, stimolandone il funzionamento con tutta una serie di meccanismi indotti, di verifiche, di misurazioni e rivelazioni in tempo reale. La banana si dà, si rivela, si mette a girare e produce un frastuono magistrale. Diventa un caso. Innesca emulazioni, sfottò sui social, meme divertenti, pubblicità commerciali (da Taffo a Durex, l’istant marketing ha dato ottimi e rapidi frutti, è il caso di dire), persino echi popolari, tra i mercati di Napoli ad esempio, dove le bancarelle promuovono “banane di Cattelan a 2 euro al kg”.
LA MORTE, LA MERCE, LA CRUDELTÀ
C’è una certa malinconia in tutto questo. Ed e proprio il lavoro di Cattelan, nel complesso, ad apparire straordinariamente malinconico, con una vena propria di tragedia. Sotterranea, laterale, prepotente. Si dice che dietro ogni maschera comica, da giullare, ci sia un volto segnato da mestizia, una consapevolezza del lato oscuro delle cose. Lui non fa eccezione. C’è una lunga ombra mortifera nella sua produzione, una tristezza che in certi casi coincide con la rappresentazione stessa della morte o con la sua evocazione. L’escamotage dell’ironia è sempre lì, a condurre e calibrare, a stabilire l’approccio e la direzione. Ma non è il cuore del lavoro, mai. Il cuore è cupo, disperato. Maurizio Cattelan si porta appresso, a 59 anni suonati, quel ragazzino ribelle che è stato, in cerca di un posto nel mondo, con l’urgenza dell’indipendenza e del riscatto sociale, tra romanticismo ingenuo, spregiudicatezza e nessuna formazione accademica: l’arte come chance mirabilmente messa in tasca, tra volontà e caso.
E intanto l’ex ragazzo in fuga e in carriera ha appeso nei musei cavalli imbalsamati e ha impiccato dei finti bambini a una quercia, nel centro di Milano; ha appeso il suo gallerista al muro, crocifiggendolo con lo scotch (A Perfect Day, 1999), e poi delle braccia a parete, in assetto da saluto romano (Ave Maria, 2007); e ancora ha appeso per il bavero il suo alter ego in miniatura, come un vecchio cappotto consegnato a uno stendino, dopo averlo inchiodato a un banco di scuola, conficcandogli delle matite nelle mani (Charlie don’t surf, 1997): consacrazioni all’incontrario, esercizi di crudeltà, indizi potenti che arrivano da chissà dove, riducendo a merci, segni o fantocci, collezioni di esseri viventi, ombre, inquietudini, speranze, memorie private, simboli collettivi.
E ha colpito il Papa con un meteorite (La Nona Ora, 1999), è scappato dalla galleria Neon di Bologna lasciando un misero cartello fuori (Torno subito, 1989), ha messo in produzione uno sgabello-lapide a tiratura limitata (The End, 2014), ha disposto sul pavimento 9 salme avvolte da lenzuola, come preziosi simulacri in marmo di Carrara (All, 2007).
Per non parlare della grande mostra, presentata coma evento speciale ad Artissima 2014, in cui vestiva i panni non di artista, ma di curatore: “Shit & Die”. L’astuzia del brand, del titolo giusto, del caso cucito intorno a opere e nomi. Caga e muori. Brutto, sporco, cattivo, ancora una volta disperato, notturno, bataillano, freudiano. E però, la morte qui si faceva marchio, gesto estetico, evento per l’appunto: tra macerie del secolo breve e scintille del millennio nuovo. Una mostra non capace di segnare una cesura (e sta lì il problema, in generale), ma piena di belle intuizioni e di sane contraddizioni. La maestria c’era e c’è, in ogni caso.
Ha giocato e gioca con la morte, Cattelan, maneggiando fascino, sparizione e paura. Sempre lungo la linea obliqua del sorriso. Ma qualcosa di più arriva, che non sia riderne e basta, stupire e fare del buon branding. Ed è l’attimo in cui quel vuoto sottile prende il posto dell’immagine piena, dell’intuizione a effetto, dell’opera instagrammabile, del soggetto da copertina.
Quel vuoto è la questione. È un capogiro. È l’assenza del discorso per forza sensato, ordinato, ancorato, compiuto, così come il secolo contemporaneo ha voluto, mentre il pensiero debole si faceva lingua dominante. È il baratro davanti agli occhi e una risata per esorcizzare. È la minaccia sminuita da uno sberleffo, il disorientamento normalizzato e divenuto prodotto patinato. Occorre maestria, per maneggiare tale inferno in modo lieve. E così, di quel capogiro è figlia anche la faccenda del mercato, dell’oggetto povero trasformato in bene prezioso, in macchina da soldi, in feticcio dorato. È lo stesso vuoto, la stessa vertigine stanca. Che Cattelan fotografa, con l’astuzia di chi conosce i segreti della comunicazione e col disincanto di chi – figlio di un tempo esasperato – non può che restituirne il volto, continuando a ripeterne i paradossi e a farli fruttare.
OLTRE IL VUOTO. CONTEMPORANEO PROSSIMO VENTURO
Maurizio Cattelan, giocoliere abile di significanti e di significati, ha posizionato una piccola opera nello stand di una fiera. Una citazione, come spesso avviene nel suo lavoro (Andy Warhol e la copertina dei Velvet Ubderground) e insieme un’autocitazione (Massimo De Carlo incollato al muro della sua galleria). Un divertissement, niente di serio. Eppure il contenuto – che c’è, altrimenti il gioco non funzionerebbe – ha sconquassato l’annoiato salotto dell’arte globale, contagiando ogni angolo del dibattito pop e guadagnandosi un frammento di futura memoria. Evidentemente non tutto era così noioso, inutile, scontato. Ma era certo così urticante da aver prodotto un surplus di indignazione. Il vuoto qui parla, disturba, segna un confine, indica un terreno di libera costruzione o destituzione. Intorno a quella voragine – piaccia o meno – qualcosa accade e deve accadere. E non si tratta solo dei soldi incassati da Perrotin.
Se il linguaggio di Cattelan è superato, superabile, conformista, venuto a noia? In parte sì. Qualcosa spinge, al confine, e prova a definire nuovi scenari: cosa sia esattamente – archiviati concettualismi e poverismi residui, con le varie versioni “neo” o “post” – non è chiaro. Ma mentre la storia va compiendosi a tentoni, essere contemporanei implica quello strano modo di essere “intempestivi”, come brillantemente Giorgio Agamben spiegò. Un modo per stare piantati nel presente, non essendovi mai del tutto allineati. Si tratta di un minimo grado di separazione, uno scarto buio, una qualche distanza, una sovrapposizione mancata per un pelo. Quel buio è occasione, è il futuro prossimo che viene, che è già in atto, in moto, potenziale. E che fortunatamente non vediamo. Buio che si nutre anche del vuoto e che – Cattelan docet – può essere inganno, disperazione e infine immagine efficace, centrata: in attesa che qualcosa o qualcuno arrivi a metterla in discussione e a spostare il centro altrove.
– Helga Marsala
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