La città di scambio. Quattro artisti a Siena
Spaziosiena, Siena – fino al 12 gennaio 2020. Schiavone, Serretta, Impellizzeri, Fassone: quattro giovani artisti italiani capaci di rivelare situazioni, storie e piani. Sono i costruttori in una città inarrestabile, in continuo movimento e spesso inafferrabile: la città di scambio di lecorbusiana memoria.
Lo scambio come atto bidirezionale, del dare qualche cosa e del ricevere altro in cambio. A Spaziosiena si sono incontrati quattro artisti-costruttori della stessa generazione: Marco Schiavone, Stefano Serretta, Sebastiano Impellizzeri e Roberto Fassone, i quali, orchestrati dalle curatrici Lisa Andreani e Stefania Margiacchi, hanno saputo interpretare il proprio personalissimo concetto di scambio.
L’idea di compravendita, di mercato, emerge subito lampante nel lavoro Jossy di Stefano Serretta. L’artista di origine genovese ripone a terra, sopra un lembo quadrato di stoffa mimetica, memore dei suq arabi, alcuni simulacri di cartapesta che il pubblico può scegliere e acquistare al prezzo di mercato di 2 euro, addirittura con rilascio di autentica. A questo aspetto si sovrappone lo scambismo di Sebastiano Impellizzeri, il cui progetto a lungo termine mappa le periferie e i luoghi appartatati delle città in cui si trova a lavorare o in cui vive. Sono gli angoli oscuri del desiderio, la soglia dove si oltrepassa il limite tra lecito e illecito: luoghi che si fanno immagini, o meglio colore dalle tonalità chiarissime, e che generano una sorta di ossimoro visivo.
FASSONE E SCHIAVONE
Lo scambio di doni, come elemento di buon auspicio, interessa invece lo sguardo ironico e trasformista di Roberto Fassone. Nella sua coppia di comodini Rebel Rebel, provenienti dalla serie Dove cadono le pareti, Fassone inventa frasi e le incide su targhette di metallo, accostando scaramanticamente parole del tipo “ogni volta che il campanello suona una coppia di turisti si perde” e giocando dunque sul paradosso, sull’inversione di significato, sullo scambio di termini.
Se Fassone fa “cadere le pareti”, Marco Schiavone le costruisce. Innalza un muro candido di travertino, pietra diffusa nel territorio senese, per poi fotografarlo e infine rimuoverlo. Qui il muro diviene allora negazione dello scambio, e anche dello sguardo, di un’entità che prima c’era ma ora non c’è più. Ne rimane l’immagine, quella di un materiale diafano che si trovava lì perché se ne riconosce il contenitore, non per altro. Quella parete fisicamente non esiste più nel nostro tempo di osservazione, ma la sua immagine scultorea permane e ha ragione di esistere per concederci l’opportunità di ricollocarci esattamente in quel luogo nel nostro tempo, di essere anche noi figure in transito di questa multiforme città di scambio e di scambi.
‒ Martina Marolda
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati