Al PAC di Milano la mostra Australia. Storie dagli Antipodi. Intervista al curatore Eugenio Viola
Il curatore italiano, già Chief Curator al PICA – Perth Institute of Contemporary Arts in Australia, ci racconta la mostra che ripercorre e indaga storie e linguaggi delle espressioni artistiche contemporanee del Paese “agli antipodi”
È una grande ricognizione sull’arte contemporanea australiana Australia. Storie dagli Antipodi, la grande collettiva che inaugura il 17 dicembre al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e curata da Eugenio Viola. Pittura, performance, installazione, scultura, video, disegni e fotografia raccontano l’Australia – per il mondo occidentale una terra “agli antipodi”, geograficamente ma anche concettualmente – da una prospettiva altra, mettendone in risalto la storia, la cultura, la politica, la società. Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (con Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing e Nyapanyapa Yunupingu sono gli artisti affermati ed emergenti con cui la mostra prova a scardinare pregiudizi e a raccontare al pubblico occidentale la complessa, stratificata e vivace scena artistica australiana. A Eugenio Viola il compito di tessere la trama di questo racconto, forte dell’esperienza come Chief Curator maturata al PICA – Perth Institute of Contemporary Arts in Australia, istituzione a cui è approdato nel febbraio 2017, prima di essere nominato curatore del MAMBO – Museo de Arte Moderno de Bogotá. Ed è proprio Viola, in questa intervista, ad anticiparci i temi della mostra e a illustrarci la scena creativa australiana contemporanea.
Come si presenta oggi la scena artistica australiana e come si inserisce nell’ambito del sistema dell’arte internazionale?
La scena artistica australiana si presenta dinamica e ricca di proposte interessanti, anche se non conosciamo molto, in Europa, la vitalità del presente dell’arte australiano, e per una serie di ragioni legate (anche) alla particolarità del loro sistema dell’arte, a volte troppo autoreferenziale, e per reazione a una supposta “tirannia della distanza”, fisica ma soprattutto psicologica, sulla quale la critica d’arte australiana per molto tempo si è soffermata, spesso abbinandola a un’ansia nei confronti dell’australiano “stato periferico” dell’arte. Negli ultimi trent’anni, tuttavia, queste questioni sono state radicalmente riviste alla luce del cambiamento delle dinamiche locali e globali: con l’affermarsi, a partire dagli anni Novanta, delle teorie postcoloniali, gli artisti australiani sono diventati improvvisamente molto più interessanti, sul piano internazionale. Tra gli artisti invitati in questa mostra, ad esempio, Mike Parr, Fiona Hall, Destiny Deacon, Brook Andrew, Dale Harding, Khaled Sabsabi, Marco Fusinato, Angelica Mesiti, Vernon Ah Kee, Stuart Ringholt, Patricia Piccinini, Christian Thompson, sono tutti ben inseriti all’interno del contesto internazionale, e partecipano regolarmente a rassegne d’arte importanti, come le varie biennali o la stessa documenta.
Cosa hai osservato durante i tuoi anni di lavoro in Australia? Ci sono temi e linguaggi peculiari rispetto a quelli dell’arte contemporanea occidentale?
L’Australia è uno stato grande quanto un continente, tanto affascinante quanto ricco di contraddizioni e lacerazioni, principalmente legate a un passato relativamente recente di conquista e colonizzazione, e a un presente in cui il processo di decolonizzazione, parzialmente ancora in fieri, ha lasciato aperte non poche ferite. L’Australia, è noto, è stata fondata dagli inglesi come colonia penale seguendo la dottrina della Terrae Nullius, che esplicitamente non riconosceva gli originali proprietari di quel territorio, principiando un processo devastante, in cui gli aborigeni sono spossessati delle proprie terre, i loro luoghi sacri profanati, linguaggi e culture violentemente distrutti. Una dottrina che crea le premesse per una serie di disuguaglianze sociali e traumi più o meno repressi i cui effetti sono ancora visibili oggi. L’Australia ha dunque una identità nazionale complessa, attraversata da una serie di problemi che sono difficili da spiegare e rinegoziare.
In che modo le vicende storiche del Paese si riflettono sulla produzione artistica?
Tutte queste contraddizioni brucianti segnano profondamente il lavoro degli artisti australiani, il cui lavoro è influenzato da innumerevoli storie personali, lingue, origini etniche, religioni e tradizioni differenti: dagli artisti afferenti alle molte culture aborigene e ‘First Nations’, a quelli che sono arrivati dal Pacifico, dall’Europa, dai paesi asiatici e dalle Americhe. Per molti di loro la diversità culturale, nonché le loro origini storiche e culturali, costituiscono un paradigma privilegiato di ricerca, uno strumento linguistico ed esistenziale che informa profondamente la teoria e la pratica del loro lavoro. Alcuni di loro si confrontano infatti con storie represse, recuperando materiali, fonti ed episodi obliati dalle narrazioni ufficiali. Altri recuperano con fierezza le proprie radici storiche e culturali, cortocircuitando temporalità e sapienze diverse. Oltre queste specificità legate al continente australiano, gli artisti australiani esplorano questioni che si ricollegano a criticità più generali e di natura globale: confrontandosi con le grandi diseguaglianze sociali, politiche ed economiche, legate al nostro presente incerto.
Come e quando nasce il progetto della mostra al PAC di Milano?
Da diverso tempo il PAC presenta annualmente una riflessione su realtà artistiche legate a particolari aree geografiche. Negli anni ha presentato focus dedicati alla Cina, a Cuba, al Brasile. Sono legato a Diego Sileo da un rapporto di stima professionale. Ho collaborato con il PAC e con Diego più volte: nel 2012 abbiamo curato insieme la mostra di Marina Abramović, nel 2014 quella di Regina Jose Galindo. Diego mi ha proposto di lavorare a questo progetto oltre un anno fa. All’epoca risiedevo ancora in Australia, dove lavoravo come Senior Curator del Perth Institute of Contemporary Arts, posizione che mi consentiva di svolgere ricerca sul campo e di girare all’interno del continente australiano. Questo periodo di tempo mi ha dato la possibilità di scoprire il lavoro di molti artisti.
Quale linea curatoriale hai adottato per presentare l’arte australiana al pubblico italiano?
Questa mostra è il risultato di un viaggio, professionale ed esistenziale, all’interno del continente australiano. Il taglio curatoriale adottato intende offrire un’istantanea sullo stato dell’arte in Australia, senza alcuna pretesa di esaustività, tenendo conto delle caratteristiche che informano maggiormente il sistema dell’arte contemporanea australiano: la compresenza di artisti australiani di discendenza europea e di artisti australiani di nazionalità aborigena, cui si aggiungono gli artisti arrivati attraverso ondate migratorie successive, e non solo dal vecchio continente, ma anche dai paesi asiatici, dal Pacifico, dalle Americhe, come conseguenza di storie personali o di diaspore legate a particolari eventi di natura socio-politica, presentando il lavoro di artisti sia emergenti sia affermati, appartenenti a diverse generazioni e background culturali.
Questa storia complessa e stratificata si riflette quindi anche sulla mostra e sul modo in cui essa è stata concepita e sviluppata?
Australia. Storie dagli Antipodi racchiude una costellazione di pratiche e prospettive culturali, politiche e sociali diverse e rappresentate da opere prodotte in un lasso di tempo esteso, oltre ad alcune appositamente create per questa occasione espositiva. Non esiste un singolo tema o una specifica preoccupazione curatoriale alla base di questo progetto, né un tentativo di presentare una qualsiasi idea stereotipata di ‘Australia’, ma di evidenziare invece una serie di connessioni, suggerendo una narrazione caratterizzata dalla prossimità e dalla vicinanza. È una mostra che affronta questioni tra loro molto differenti eppure ugualmente urgenti, legate al contesto australiano ma che per induzione assumono risonanza globale, restituendo un panorama, frastagliato e complesso, del nostro presente incerto.
– Desirée Maida
Milano // dal 17 dicembre 2019 al 9 febbraio 2020
Australia. Storie dagli Antipodi
A cura di Eugenio Viola
PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea
Via Palestro 14
www.pacmilano.it
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