Inconscio, Zen ed equilibrio. Darren Almond a Napoli
La galleria Alfonso Artiaco di Napoli ha ospitato la mostra dedicata a Darren Almond, che ci ha svelato radici ed evoluzioni della sua pratica artistica al confine tra i vari linguaggi visivi.
Dalla fotografia alla pittura, dai paesaggi alle cifre: intercettato in occasione del suo nuovo progetto In Temple Grounds da Alfonso Artiaco a Napoli, Darren Almond (Appley Bridge, 1971) descrive i retroscena più intimi della sua creazione. In apparente rottura, ma in realtà in evoluzione continua, con i suoi trascorsi creativi. E, tra aritmetica e Zen, musica e pittura, c’è spazio anche per vuoto creativo, albe e passeggiate.
La spiritualità e la gravità, lo spazio tra il tempo, la dinamica perdurante tra la necessità di una struttura e la ricerca di una libertà entro i suoi confini sono da sempre nella tua arte: come si declina tutto ciò nella tua più recente ricerca, che scopre anche la pittura e si ispira sempre più esplicitamente all’Oriente?
Avevo bisogno di libertà, ma anche di una certa struttura, senza la quale le cose tendono a svanire. Dunque ho iniziato prima a costruire una nuova grammatica pittorica, e poi a derogare fluidamente alle regole che io stesso mi ero autoimposto. I dipinti astratti con cifre, ad esempio, si sono sfaldati dalla iniziale severità rigorosa. In questo, sono affascinato dal rapporto tra arte e natura in certi giardini giapponesi, cui alcuni miei ultimi lavori si riferiscono: in essi gli alberi sono sostenuti da pali che da un lato sono artificio, dall’altro però permettono alle piante di arrivare a estensioni altrimenti irraggiungibili, perché si spezzerebbero cadendo sotto il peso della gravità, nel tempo. È un po’ come quando mi trovavo a camminare mano nella mano con mia figlia piccola: lei tirava in una direzione, io dovevo proteggerla guidandola, da un lato negandole pericoli, dall’altro rendendole invece possibili dei percorsi che da sola non avrebbe potuto intraprendere. È esattamente come la condizione umana, che cerco di esprimere in queste opere.
Intendi che alcuni limiti in realtà servono a consentire, non a precludere?
Esattamente. L’Oriente ritorna poi anche nel mio lavorare sempre più con pigmenti riflettenti, ottenuti da minerali: oltre ad avere una forte carica energetica, in quanto conduttori, essi inducono il fruitore a trovare un posizionamento individuale innanzi al quadro, perché i riflessi cambiano in base al punto di osservazione. In questo le opere sono esseri davvero vivi, e ricordano l’uso dei luoghi nei giardini Zen, che lavorano con gli spazi negativi e il vuoto proprio allo scopo di far cercare al visitatore una posizione per sé.
Già nei tuoi paradossali pleniluni c’era un intimo dialogo tra tecnologia e natura, e qui lo si ritrova tra aritmetica e organica…
L’esistere altro non è che una dinamica tra plus e minus, vita e morte, numeri positivi e negativi, e in mezzo c’è lo zero, come linea d’orizzonte. È impossibile venire a patti con l’immenso e l’astratto, tuttavia l’uomo si è forgiato il linguaggio dell’intelletto, quello logico e razionale, per tentare di metterli in scala e dire l’eterno e l’infinito. Ma solo l’inconscio può leggerli e comprenderli. Tornando al posizionamento del fruitore davanti ai miei pigmenti riflettenti, basti pensare che l’inconscio è sempre consapevole della direzione da cui proviene la luce, perché è l’energia di cui viviamo. Io tento dunque di investigare lo spazio tra natura e tecnologia, intelletto e inconscio, finito e infinito, ben consapevole che in questa vita terrena, come tento di trasmettere anche ai miei figli, dobbiamo trovare un balance esistenziale tra l’uno e l’altro, azione e contemplazione, solidità e levità, struttura e libertà, gravità e spirito, e che c’è sempre entropia e rumore anche nel silenzio.
A proposito di suoni, mi accennavi alla tua passione per la musica minimale, per autori come Philip Glass: anche in essa c’è un dialogo tra infiniti pattern e griglia matematica.
Esatto. Sono in effetti interessato soprattutto alle esecuzioni live di minimal music, in cui l’ascolto si trasforma in una vera e propria esperienza, come meditazione. Inoltre in quel genere musicale ritrovo la dinamica tra microcosmo e macrocosmo che è la domanda intrinseca alla nostra esistenza, espressa, come nella mia ultima ricerca, tramite la ripetizione di moduli e la loro relazione con una griglia geometrica superiore di contenimento e riferimento. Ogni infinito è, e deve sempre essere, radicato a una struttura.
Che cos’è, nella tua esperienza umana e professionale, la materia, e cosa lo spirito?
Ti vorrei rispondere con una confidenza. Sto sempre più accorgendomi che amo disegnare, soprattutto in un certo spazio e tempo: appena prima che il sole sorga. Lì e allora, sono più connesso a ciò che non conosco. L’energia viene dall’alba: in quella transizione, la memoria del mio subconscio è più forte, e nelle prime ore del mattino io ritrovo la mia costellazione. E riesco a stabilire una migliore relazione con lo spazio negativo. La verità è un mistero eterno, ma è sicuramente lì che risiede, nello spazio negativo, e più si invecchia, più ce ne si rende conto.
‒ Diana Gianquitto
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