Pittura lingua viva. Intervista a Davide Ferri
VIVA, MORTA O X? 71ESIMO APPUNTAMENTO CON LA RUBRICA DEDICATA ALLA PITTURA CONTEMPORANEA IN TUTTE LE SUE DECLINAZIONI E SFACCETTATURE ATTRAVERSO LE VOCI DI ALCUNI DEI PIÙ INTERESSANTI ARTISTI ITALIANI: DALLA PITTURA “ESPANSA” ALLA PITTURA PITTURA, DALLE CONTAMINAZIONI E SLITTAMENTI DISCIPLINARI AL DIALOGO CON IL FUMETTO E L’ILLUSTRAZIONE FINO ALLA RILETTURA E STRAVOLGIMENTO DI TECNICHE E ICONOGRAFIE DELLA TRADIZIONE.
Parola a Davide Ferri, curatore della sezione Pittura XXI nell’ambito di Arte Fiera e della mostra Le realtà ordinarie, in arrivo al Palazzo De’ Toschi di Bologna. Una collettiva che indaga peculiarità e confini del linguaggio pittorico contemporaneo.
Come hai sviluppato l’idea di una mostra quale Le realtà ordinarie pensata per lo spazio del Salone Banca di Bologna di Palazzo De’ Toschi?
Aspettavo da tempo un’occasione per sviluppare una riflessione un poco articolata sulla figurazione iniziata, per me, al Museo Pecci con la mostra La figurazione inevitabile, che ho curato nel 2013 insieme a Marco Bazzini. Quella mostra guardava alla figurazione da due punti di vista, lungo due fili conduttori: da una parte una figurazione automatica, dimessa, svagata, spensierata, che emerge come un dato inevitabile; dall’altra una figurazione prudente, analitica, metalinguistica, un po’ esangue e sfiatata.
Le realtà ordinarie è ancora sospesa tra queste due polarità: tra il desiderio di dipingere figure, figure ordinarie, tra il piacere di “dipingere e basta” (come dice Richter), e l’impossibilità di abbandonarsi completamente a questo racconto dell’ordinario. Dall’incontro, sulla tela del pittore, tra queste due forze contrapposte nasce per me la figurazione più interessante.
Perché la precisa intenzione di soffermarsi su nature morte, vasi di fiori, paesaggi, interni domestici…?
All’origine della mostra c’è anche il piacere che provo – proprio il mio, innanzitutto – ogni volta che mi trovo di fronte a un vaso di fiori, a una natura morta, a un placido paesaggio… a cui magari è sottesa una certa debolezza autoriale, o una presenza debole dell’autore. Questo piacere ha a che fare, ovviamente, con la pittura in generale, ma è molto più forte quando un quadro apparentemente ordinario lo trovo (e mi capita molto di frequente) nello studio di un artista della mia generazione, del nostro tempo, che magari lo ha fatto sulla spinta di un desiderio (direi inevitabile, per usare un aggettivo che mi piace molto: quale pittore non prova l’impulso, di tanto in tanto, di abbandonarsi all’immagine di un semplice vaso di fiori, o di una marina?).
Il punto è che quel quadro, nato all’insegna della spensieratezza, occupa quasi sempre una posizione eccentrica all’interno della poetica del suo autore, e può generare sconcerto e una serie di domande che trovo molto interessanti: potrebbe un artista del nostro tempo dipingere solo nature morte? Perché di fronte a un quadro che rappresenta un soggetto ordinario abbiamo l’impressione di trovarci in una zona franca, libera dal gioco culturale dei rimandi e delle citazioni? Esiste ancora una spinta verso l’ordinario? E i pittori tendono ad assecondare questa spinta o a contrastarla? La mostra prova a rispondere a queste domande.
In un’intervista dell’anno scorso, Luca Bertolo, uno degli artisti in mostra, affermava: “L’unico compito che ha un artista è di forzare i limiti dell’orizzonte d’attesa… Ampliare l’orizzonte d’attesa non significa necessariamente vomitare in una galleria o impiccare fantocci a un albero; meno eclatante, ma non meno intenso, può risultare un carminio in luogo di un cobalto”. L’uso di un carminio in luogo di un cobalto può essere oggi anche un gesto politico? E dipingere un fiore?
In diversi momenti, in particolare mentre curavo la pubblicazione del libro di scritti di Luca (I baffi del bambino, ed. Quodlibet) mi sono trovato a discutere con lui della cosa di cui parli.
Mi interessano soprattutto l’ambiguità e le contraddizioni che si generano dalle possibili risposte alla tua domanda: il pittore che dipinge un fiore può certamente rivendicare un ruolo politico in base a una naturale discendenza dell’etica dall’estetica; ma può al contempo approdare alla presa di coscienza/constatazione che il desiderio di un uso più direttamente politico della pittura non può che restare inappagato, una specie di ferita.
Come sei arrivato a definire la selezione dei tredici artisti partecipanti? Cosa presenteranno?
La mostra è inevitabilmente parziale e non ha nessuna pretesa di esaustività, non è un elenco di artisti, e neppure una panoramica sulla figurazione del nostro tempo. Volevo provare a illuminare l’aggettivo ordinario da angolazioni e prospettive diverse, e volevo farlo attraverso il lavoro di artisti che mi piacciono e che ammiro, e che in taluni casi, se penso ad alcuni in mostra, definiscono la mia identità.
Dunque: il desiderio ordinarietà che si traduce in ossessione verso alcuni soggetti variati e ripetuti fino al loro sfinimento, come avviene nei lavori di Maureen Gallace o nelle Nature morte del dritto e del rovescio di Riccardo Baruzzi, dipinte sui due lati della tela. L’ordinarietà come spinta verso i generi tradizionali, che possono sovrapporsi e collassare l’uno nell’altro, oppure emergere come immagini apparentemente temporanee da un magma astratto, come avviene nei quadri di Rezi van Lankveld, Phoebe Unwin o Patricia Treib. L’idea di combattimento con i generi tradizionali, come emersione di una forza contraria che si oppone al desiderio, come in alcuni dipinti in mostra di Luca Bertolo, in cui l’artista ingaggia un dialogo molto fitto, quasi una battaglia, con alcuni quadri di pittori sconosciuti, trovati in un mercatino. L’ordinarietà come movimento dello sguardo dall’alto verso il basso, verso la zona di terra più prossima ai piedi (come in Carol Rhodes, che ha dipinto per tutta la vita paesaggi da una prospettiva aerea, o in Michele Tocca, che presenta tre dipinti che descrivono un terreno fangoso, pieno di segni e impronte); l’ordinarietà come luce interna ai dipinti, una luce diurna e meridiana che illumina uniformemente le cose, come nei secchi trompe l’oeil di Helene Appel, dipinti su tela grezza, o nei bellissimi quadri con agrumi di Salvo.
Mi sembra che in generale emerga una forte centralità del mezzo pittorico, senza particolari “aperture” o contaminazioni cross-mediali o cross-disciplinari. Poca pittura “espansa”, se così si può dire… è anche questa una scelta precisa?
Sai che l’espressione “pittura espansa” mi convince pochissimo? Uno degli aspetti affascinanti della pittura è la sua capacità di espansione proprio quando se ne sta rintanata nei ristretti limiti del quadro e della tela. Sono sempre un po’ sospettoso di fronte all’infrazione troppo repentina di questi limiti, e fortemente legato all’idea che un dipinto possa espandersi veramente solo in rapporto alla sua compostezza. So di stabilire un confronto un po’ paradossale, ma per me un dipinto come La meninas di Velázquez, ad esempio, si espande nella stanza che lo ospita, al Prado, molto più di un qualsiasi lavoro di – che so – Katharina Grosse.
Figurazione e astrazione sono oggi categorie ancora strettamente applicabili quando si guarda un dipinto contemporaneo?
Questo è per me un problema centrale. Ha a che fare con le parole e categorie attraverso le quali discutiamo e analizziamo la pittura. Quando le pronunci, o le scrivi, figurazione e astrazione, queste due categorie storiche suonano come obsolete (hai presente quelle espressioni esauste tipo: “in bilico tra figurazione e astrazione”?) Eppure queste due categorie storiche, profondamente novecentesche, sono ancora indispensabili per parlare e descrivere la pittura. Il punto non è smettere di usarle, rendendole inoffensive e inapplicabili, ma continuare a farlo cercando di capire come le interpretano i pittori delle ultime generazioni, e cioè in modo poroso e, in un certo senso, intercambiabile. Qualche settimana fa, ad esempio, ero nello studio di Corinna Gosmaro, un’artista che non conoscevo e che stavo incontrando per la prima volta. Eravamo di fronte ai suoi dipinti, del tutto astratti, fatti di macchie a spray e grandi campiture e non c’era neppure la vaga traccia di un orizzonte, di un segno riconducibile al reale… eppure lei parlava di paesaggi.
Siamo nel 2020. Gli Anni Venti del Novecento da un punto di vista artistico e intellettuale sono stati molto vivaci. Sono anni che hanno visto anche il cosiddetto “Ritorno all’ordine”. Nel tuo saggio in catalogo sviluppi una riflessione proprio su ordine e ordinario. Mi piacerebbe approfondirla.
Quello che mi interessava moltissimo era tenere l’idea di ritorno all’ordine come sfondo e contraltare storico alla mostra. Voglio dire: viviamo in un periodo di evidente riaffermazione della pittura, mi affascina, mi ha sempre affascinato, l’ambiguità semantica tra le parole ordine e ordinario e capire quanto questi periodici ritorni della pittura (perché poi abbiamo bisogno di questi cicli di morte e rinascita quando è perfino superfluo dire che la pittura non muore mai?) siano impastati con l’idea di rientro nei ranghi, ritorno alla compostezza, dopo un periodo di confusione, come fu per il Ritorno all’ordine dopo le turbolenze dell’Avanguardia.
E il fattore tempo che ruolo svolge invece in mostra?
Fondamentale, perché sostiene, diciamo, la “parte astratta” della mostra, all’interno della quale l’ordinario coincide con l’idea di un tempo che procede in forma apparentemente regolare e indifferenziata nello spazio dello studio, un luogo mai descritto ma continuamente evocato da alcuni lavori in mostra. Per questo ci sono le Sedimentazioni di Maria Morganti, fatte di strati di colore, sovrapposizioni di quel “singolo colore al giorno” che lei usa per dipingere, e i lavori di Clive Hodgson con macchie e tratti che compongono l’idea di flusso inarrestabile di immagini inconcludenti e secondarie.
Ma l’idea di tempo in mostra viene raccontata anche come dispersione e spreco attorno a un’immagine ordinaria e apparentemente insignificante, come nel lavoro di Andrew Grassie, ad esempio, un artista per il quale è fondamentale il racconto degli spazi marginali (magazzini, uffici, ingressi) di musei e gallerie in cui è invitato a esporre.
È quello che avviene anche nel lavoro che introduce il visitatore alla mostra, un’immagine, realizzata a tempera con una perizia fotorealistica che lascia sbalorditi, del Salone di Palazzo De’ Toschi come appare per undici mesi all’anno (un luogo di rappresentanza, una sala congressi con una grande platea di sedie per il pubblico): il ritratto della vita ordinaria della sede temporanea della mostra.
Da tempo sei impegnato in un lavoro di analisi, promozione e valorizzazione del linguaggio pittorico. Quest’anno per Arte Fiera curi Pittura XXI, la prima sezione di una fiera interamente dedicata alla pittura contemporanea. Come sei arrivato alla definizione dei contenuti e cosa ci possiamo aspettare da questa sezione?
È quasi scontato dire che la sezione di una fiera non è una mostra, ma ci sono inevitabilmente alcuni fili conduttori che la percorrono: l’approdo a una figurazione che sembra nascere come un dato momentaneo da una specie di magma astratto, o, al contrario, di un’astrazione che sottende una grammatica figurativa; la proposta di una figurazione agile, perfino sfrontata, capace di sovrapporre forme e modelli del passato (anche quello che precede le Avanguardie) a un immaginario pop; all’estremo opposto, una figurazione minima, riflessiva, inevitabilmente metalinguistica.
Attraverso il confronto con Simone Menegoi, invece, sono nate le linee generali del progetto: mettere in luce il lavoro di artisti mid-career, di pittori che stanno vivendo la “fase adulta” della loro ricerca, premiare il lavoro di quelle gallerie che negli ultimi anni hanno dato spazio, nella loro programmazione, alla pittura, selezionare con attenzione/parsimonia gli artisti italiani per metterli in dialogo, il più possibile, con una dimensione internazionale.
Ne è venuta fuori una sezione che include 19 gallerie e circa trenta artisti, con una lieve prevalenza di artisti internazionali rispetto agli italiani. In generale la sezione mi sembra una corposa indagine sulla figurazione nel nostro tempo (con qualche deriva astratta, motivata) che mi sembra evidenziare aspetti e problemi interessanti.
A fronte delle cicliche, e mai reali, morti e resurrezioni della pittura, perché, secondo te, proprio in questi ultimi anni l’attenzione verso questo mezzo sembra davvero essere più marcata?
Non lo so, mi interrogo su questa faccenda, ma non so mai darmi delle risposte precise. In questi giorni nei quali mi trovo a rispondere a diverse interviste sulla pittura e la sua presunta rinascita mi sembra di balbettare delle cose che hanno a che fare con l’idea che la pittura ci appare, in determinati momenti storici, un medium più rassicurante di altri. Ovviamente non è così, ma è interessante provare a domandarsi perché ci appaia tale (la mostra di Palazzo De’ Toschi ha a che fare con questa domanda, come ti dicevo prima). Inoltre tu usi l’espressione, a proposito delle cicliche morti e resurrezioni della pittura, “mai reali” e io ovviamente sono d’accordo. Ma parli anche di un’attenzione più marcata, e a me viene da aggiungere “straripante”. Da un certo punto di vista è un bene, ma a volte ho la sensazione che proprio per la sua esuberanza, questa attenzione andrà esaurendosi in brevissimo tempo, e i pittori torneranno in quella zona di semibuio che in fondo li fa sentire molto più a loro agio…
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea anche letta in relazione a quella internazionale? Quali gli elementi di debolezza e quali invece i punti di forza?
È una domanda che richiederebbe una risposta molto ampia. Ti dico solo una cosa, che mi sembra la più importante: in Italia, diversamente dagli altri Paesi, si è verificato una specie di vuoto critico attorno alla pittura che è durato troppo a lungo. Per esempio manca, in Italia, un racconto della pittura che tenga conto di quegli anni compresi tra la Transavanguardia e questa ennesima rinascita di cui stiamo parlando. Questo vuoto critico, o di racconto, riguarda anche la pittura internazionale che è mancata da musei e gallerie del nostro Paese per molto tempo. Voglio dire: è possibile che solo lo scorso anno ci sia capitato di vedere le prime mostre in Italia di pittori come Luc Tuymans o Neo Rauch?
In Italia inoltre, e questo è il punto, ci sono stati straordinari pittori (tra quelli che hanno iniziato a dipingere all’inizio degli Anni Novanta (mentre all’estero andavano affermandosi artisti come Peter Doig e John Currin, Elizabeth Peyton e Marlene Dumas…), ma ancora ampiamente sottovalutati perché orfani dell’attenzione critica che avrebbero meritato. Vuoi qualche nome? Marco Cingolani, Marco Neri, Pierpaolo Campanini e, naturalmente, Alessandro Pessoli e Luca Bertolo…
Una domanda che rivolgo sempre agli artisti di questa rubrica è: “Perché fare pittura oggi?”. Provo a girarla a te. Dalla tua prospettiva di curatore… Perché?
Perdonami se restringo a me stesso il territorio della risposta a questa domanda.
Dopo quasi vent’anni di lavoro, mi piace, di tanto in tanto, fare i conti con le ragioni essenziali per cui continuo a fare questo mestiere. Ecco, una delle cose a cui non potrei mai rinunciare, che genera un piacere simile a quello che mi può dare un romanzo, la letteratura che amo, sono le chiacchiere negli studi dei pittori (in quelle specie di torre d’avorio, dove i rumori del mondo arrivano molto attutiti) che avvengono mentre lo sguardo, anche distrattamente non importa, cade sui quadri appesi alle pareti. Voglio dire: se non ci fossero ragioni per fare pittura oggi, non ci sarebbero più gli studi dei pittori, e nemmeno le mie chiacchiere negli studi dei pittori, e allora cambierei mestiere. Può bastare come risposta?
‒ Damiano Gullì
LE PUNTATE PRECEDENTI
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