Identità, economie e narrazioni. Liv Schulman a Venezia
Galleria A plus A, Venezia – fino al 18 marzo 2020. La galleria veneziana ospita la prima personale in Italia di Liv Schulman. Questioni identitarie, politiche, finanziarie, religiose e sessuali sono al centro di quattro installazioni video, da cui emerge in quale misura il capitalismo avanzato determini le economie materiali e immateriali della nostra quotidianità.
È affidato a una emoticon – entità per definizione fluida, muta ed eloquente al contempo – il compito di “rompere il ghiaccio” e di accompagnarci all’interno dell’universo di senso di Liv Schulman (Argentina, 1985). Le interazioni verbali e non fra i personaggi dei suoi video costituiscono altrettanti elementi sintattici attraverso cui l’artista costruisce un linguaggio che, consapevole della propria collusione con il capitalismo, tenta di superarlo per mezzo di narrazioni alternative al modello europocentrico, vincente, ricco, eterosessuale e bianco.
In Le Goubernement sei attrici danno voce alle storie di artiste lesbiche, queer e trans gravitate attorno a Montparnasse dal 1910 al 1980, recuperate dall’oblio di un revisionismo storico violento e fazioso attraverso uno straordinario lavoro d’archivio. Le narrazioni si sovrappongono, convergono e divergono, restituendo forme identitarie collettive. Ne L’Obstruction il tentativo di trasformare gli atti linguistici in atti sociali in cui è impegnato il protagonista, afflitto da un machismo che gli preclude ogni possibilità di autorealizzazione, fallisce costantemente, condannandolo a una condizione di frustrante e imbarazzante incomunicabilità. A somatic play esplora il significato fisico e concettuale dell’idea di confine attraverso l’esperienza di fittizi ufficiali doganali (impersonati peraltro dalla stessa attrice), impegnati nel compito fallimentare di contenere, come altrettanti scienziati “contagio-fobici”, la diffusione di persone, idee, oggetti, malattie psichiche e stati d’animo. Polis Polis, girato interamente all’interno di un commissariato di polizia svedese, analizza la feticizzazione sociale di un oggetto – l’uniforme – e le corrispondenti ripercussioni sulle economie del nostro quotidiano.
Schulman crea una sintassi e una semantica nuove per lo stesso linguaggio video, liberandolo dall’imposizione della linearità e sequenzialità temporale dello storytelling e dall’esclusività e non ripetibilità del personaggio. Gli universi vivificati dall’artista sono metafore non raffigurative della realtà, sono fantasie esteticamente coerenti che mettono in discussione il mondo senza imitarlo. Sono narrazioni libere, autenticamente alternative, che esplorano grandi interrogativi in maniera trasversale, multidirezionale, come costellazioni di senso in espansione, come reti, come testo.
L’INTERVISTA A LIV SCHULMAN
La prima cosa che si nota del tuo lavoro è l’accostamento di media testuali e visuali. Parole articolate in dialoghi o soliloqui da un lato, e immagini, video, persone in movimento dall’altro. Quali sono le possibilità espressive e i limiti propri di questi due linguaggi? E quali sono le difficoltà che riscontri nel metterli insieme?
Il testo scritto o parlato instaura inevitabilmente un qualche tipo di comunicazione, ma la metafora sottesa emerge attraverso il modo in cui viene tradotto in azione dall’attore. È come vengono dette le cose o come vengono svolti i movimenti a esprimere il “surplus” semantico del testo, che nel mio caso coincide molto spesso con l’ironia. Ovviamente questo rappresenta anche un limite, qualora la performance dell’attore non restituisca il senso originario o lo travisi completamente. Peraltro negli anni mi sono accorta che l’ironia è molto locale: quello che fa ridere in un contesto non necessariamente mantiene lo stesso effetto in un altro, o tradotto in un’altra lingua. Le barzellette non sono universali, come del resto nemmeno le opere d’arte. Lavoro con attori professionisti e amatoriali: i primi hanno un’incredibile elasticità, vestono qualsiasi personaggio con estrema disinvoltura; i secondi sono meno duttili ma il lavoro di negoziazione fra le loro possibilità e aspettative e le mie può essere estremamente stimolante. Molti di loro riescono a portare qualcosa del loro vissuto nel personaggio e penso sia una splendida metafora di come non ci possa essere una netta demarcazione fra arte e vita. In fondo, se ogni mattina esco di casa alle 8 e saluto il dirimpettaio che esce alla mia stessa ora, non sto forse eseguendo una performance?!
Il testo, inteso come intreccio di parole, frasi, movimenti, atteggiamenti e storie, sembra un concetto essenziale nel tuo lavoro. Sei d’accordo? E se sì, quale ruolo svolge all’interno della tua ricerca?
Il testo è tutto per me, è tutto ciò che ho. È la base del mio modo di concepire e rappresentare l’identità, la storia, l’economia, la politica, il linguaggio e la sessualità. Non è un caso che nei miei lavori utilizzi molti materiali ed elementi tessili, con cui interagire, da toccare; simboli espliciti di una trama, di un incontro fra direzioni incidenti ma indipendenti.
È molto interessante che tu abbia scelto di aprire la mostra con una emoticon. È una decisione connessa all’ambivalenza ricorrente nel tuo lavoro fra comunicazione e fraintendimento? E come intendi il rapporto fra queste due?
Sì, ho scelto l’emoticon proprio per questo: ha un’espressione indecifrabile, a metà fra l’imbarazzato e il sensuale. Sicuramente esprime una condizione di disagio, un elemento ricorrente nei miei lavori. Per Lacan la comunicazione è impossibile: la soggettività degli agenti preclude la trasmissione di un contenuto oggettivo, universale, collettivamente comprensibile e condivisibile. Penso che invece comunicazione e fraintendimento siano due entità vive, in tensione: condividono uno spazio comune e tentano costantemente di invadere l’una i confini dell’altra, senza ovviamente riuscirci compiutamente. Credo si co-implichino: c’è fraintendimento nella comunicazione, ma anche comunicazione nel fraintendimento.
Il linguaggio e la sessualità sono temi centrali nella tua ricerca e nella selezione di lavori che hai portato in questa mostra. Ed effettivamente entrambi possono essere intesi come forme materiali o immateriali di economie capitalisticamente strutturate. Quale ritieni sia il rapporto che il capitalismo intrattiene con il linguaggio da un lato, e con la sessualità dall’altro?
In verità credo sia una relazione triadica più che diadica. Rappresentano forme di interazione pubblica e privata fondate sulla violenza derivante da fantasie machiste ed eterosessuali onnipervasive, esclusive, che non lasciano spazio a economie di desiderio alternative. L’unica possibilità di revisione e modificazione attiva del capitalismo avanzato è rappresentata dalla creazione, diffusione e concretizzazione di fantasie altre rispetto al modello imperante, che siano in grado di alimentare l’immaginazione e quindi di cambiare la realtà. Oppure l’esperienza individuale o comunitaria di forme di costruzione e affermazione identitaria collettiva e non più solo ego-riferita.
Nei tuoi lavori affronti spesso le questioni di genere, come moltissimi altri artisti negli ultimi anni. Da dove pensi nasca l’esigenza di parlare di questo argomento e come pensi debba o possa contribuire l’arte al discorso sul genere?
Esplorare questo concetto significa per me introdurre e concretizzare una fantasia alternativa al modello semplicistico e violento di binarismo perfetto. Ha perciò una carica rivoluzionaria, una potenzialità di ribaltamento dello status quo politico, economico, sociale e culturale.
Cosa auguri a te stessa, in quanto artista ed essere umano, per il prossimo futuro?
Pensare e realizzare più fantasie alternative. E leggere e scrivere più poesia, che alla fine non è altro che un modo sublime di dar forma a fantasie sublimi.
‒ Irene Bagnara
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