La nomina di Cecilia Alemani alla Biennale di Venezia e il “golpe” di Paolo Baratta
Il critico bolognese Renato Barilli commenta la nomina di Cecilia Alemani alla direzione della Biennale di Venezia 2021. Sottolineando il peso dell’“infrazione” compiuta dal presidente uscente Paolo Baratta.
Quello compiuto da Paolo Baratta ha tutta l’aria di essere un “golpe”, una infrazione a regole precise. Ben sapendo di non poter aspirare a una ennesima chiamata a ricoprire il ruolo di Presidente della Biennale di Venezia, Baratta ha approfittato di un ritardo nelle nomine da parte del ministro competente, Dario Franceschini, per procedere lui stesso, nell’interregno, nella sede vacante, ma in genere autorizzata solo a tranquilli atti amministrativi, a compiere invece il grande passo, la scelta più impegnativa, consistente nell’indicare la prossima direttrice del settore arti visive, il più importante, subito dopo quello del cinema, che forse il presidente in auto-proroga ha ritenuto troppo alto di valore per osare di procedere anche a questa nomina, seppure più urgente, in quanto un direttore di questa sezione servirà già nel prossimo agosto.
A quanto pare una simile nomina fuori regola avrebbe avuto il pieno plauso del ministro in carica, comportamento curioso da parte di chi si vede derubato di una sua prerogativa, che dovrebbe cominciare dalla nomina del nuovo presidente, cui le altre designazioni dovrebbero succedere in scala discendente. La persona prescelta, Cecilia Alemani, è certamente degna, con serio curriculum alle spalle, e con l’incoraggiante aspetto di essere la prima donna italiana a essere investita di un simile ruolo prestigioso. Peserebbe su di lei il difetto di un certo nepotismo, o meglio, nel suo caso, di un “coniugalismo”, in quanto è la moglie di Massimiliano Gioni, che ha già goduto della nomina a questo incarico, quasi che i posti presso la nostra più antica e classica istituzione divenissero una questione di famiglia, da trasmettersi da membro a membro.
“Ancora una volta si è pescato nella compagine dei “curators” e non dei critici e storici dell’arte, quasi che questi fossero dei disabili”.
Dal mio punto di vista, prendo atto con dispiacere che ancora una volta si è pescato nella compagine dei “curators” e non dei critici e storici dell’arte, quasi che questi, diversamente da come sono andate le cose per decenni, fossero dei disabili, negati ad assumere cariche del genere. Con l’effetto deplorevole che le Biennali di Venezia ormai da anni scartano i temi veramente impegnativi, in ambito critico-storico, limitandosi a una buona politica di “soliti noti”, fissati in un albo di Gotha, o in un manuale Cencelli, dalla congrega dei “curators”, ben attenti a spiarsi con la coda dell’occhio e a non infrangere le norme di un galateo fortemente stabilito. Voglio solo sperare che la neo-eletta non ripeta i due errori della precedente edizione, cancellare del tutto una differenza di ruoli tra lo spazio dei Giardini e quello delle Corderie, e relegare in esilio la presenza italiana nel luogo più scomodo e buio di tutto il percorso.
‒ Renato Barilli
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