Pittura lingua viva. Parola a Simone Camerlengo
Viva, morta o X? 70esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Simone Camerlengo è nato a Pescara nel 1989. Nel 2009 inizia gli studi presso l’Accademia di Belle Arti de L’Aquila, frequentando la scuola di Pittura con Sergio Sarra. Nel 2014 vince una borsa di studio per il progetto Erasmus e frequenta la UPV-EHU Facultad de Bellas Artes di Bilbao. Si laurea in Pittura (II livello) con Italo Zuffi e Cecilia Canziani nel 2018. Successivamente vince una borsa di studio per il progetto Erasmus Traineeship e lavora come assistente a Berlino presso lo studio dell’artista Lorenzo Scotto Di Luzio. Attualmente vive e lavora a Pescara, nel suo studio SenzaBagno.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
“Avvicinamento” all’arte? O al medium? Se parliamo del medium, l’interesse verso la pittura è maturato quando nel graffiti/writing ho iniziato a percepire che non mi bastava più esprimermi attraverso il lettering (lo studio della scrittura e di una ricerca di stile); mi divertiva e appagava di più il rapporto con il colore, con un’espressione più libera…
Chi sono gli artisti cui guardi?
Guardando indietro, penso che l’amore verso l’arte sia nato quando ho conosciuto il Post-impressionismo e da lì a seguire, per citare alcuni artisti direi Cézanne, Matisse, Miró… Se penso a quegli artisti cui guardo oggi vi sono sicuramente Wool, Ostrowsky, Sibony, come tanti altri non esclusivamente pittori.
Perché la scelta dell’astrazione?
Ho sempre inteso la pittura come un qualcosa di viscerale, una “valvola di sfogo”, una forma d’espressione dell’interiorità cui non poter mettere dei freni o rinunciare.
Il segno, il tratto cosa rappresentano per te? Spesso lo si ritrova, aggrovigliato, nelle tue opere e anche trasposto tridimensionalmente…
Il flusso, il semplice movimento che è espressione di me come individuo. A volte mi piace anche pensarle, le linee, come parole che sento di non voler scrivere o che non ho coraggio a pronunciare… E le cancello anche, se ci pensi (ahahah).
Perché la necessità di espandere la tua pittura?
È stata la necessità personale di spostarmi da davanti allo specchio, “il quadro”, e iniziare a far mettere in relazione la mia persona con altro.
E i materiali trovati che ruolo hanno? Penso ad esempio a tubi e calcinacci.
Non hanno un ruolo specifico, sono superfici che hanno iniziato a interessarmi anche grazie al contesto in cui vivevo. L’Aquila, dove ho svolto gli studi accademici, ha condizionato fortemente la mia estetica e turbato la mia sensibilità. Sono una persona costantemente affascinata dall’immaginario urbano e dalle superfici che vi si possono incontrare. Ho solo iniziato a rileggerle e rimaneggiarle.
Tubi e calcinacci sono un’esperienza che risale già a qualche anno fa e dalla quale mi sono ora un po’ allontanato. Era un discorso molto legato alla tridimensionalità del segno, al flusso, a questa precarietà del gesto: per esempio, i tubi da irrigazione possono cadere o cambiare forma dopo un istante alla ricerca di un equilibrio, come la linea che costantemente riscrivo e velo.
Si parlava prima di superfici. La pittura a spray ti permette di intervenire su svariate tipologie: cemento, reti, massetto. In generale, cosa rappresenta per te la sperimentazione sui materiali?
Il forte legame con quello che mi circonda, con quello che vedono i miei occhi.
E la memoria, il ricordo come influiscono sul tuo lavoro?
Non influiscono: tutto si basa molto di più sul presente.
Come ti rapporti allora con la tradizione iconografica e con la storia dell’arte?
Continuando a dipingere.
Il colore, la luce cosa rappresentano per te?
Non penso di saper rispondere.
Come si è trasformato il tuo lavoro nel tempo?
Concettualmente non mi sono mai spostato dal graffiti/writing. Nel mio percorso artistico mi sono sempre più confrontato e ho dato attenzione alle superfici e ai materiali su cui dipingevo. Ho dato attenzione anche al come dipingevo, ma mai in senso classico/tradizionale.
Ci sono formati o tecniche che prediligi?
No. Anche se è vero che i grandi formati permettono di essere più vandali.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Citando Dj Gruff: “Estremamente semplice, semplicemente estremo”.
La letteratura, la musica, il cinema influiscono sulla tua pratica?
Molto. La lettura spesso come nozione, studio, assonanze che ritrovo qui e là. La musica è la mia culla, mi accompagna sempre. Non è legata strettamente all’atto pratico, il legame è a priori. Mi ci sveglio con la musica, mi accompagna nelle solite passeggiate per la mia città, ci dormo. Ascolto molto rap Anni Novanta (soprattutto italiano), jazz, reggae… In fondo i cantanti sono scrittori. Quando ascolto i loro testi è come se leggessi libri che mi si presentano in forma diversa e con contenuti che spesso mi interessano di più.
Come scegli i titoli delle tue opere?
I titoli per i miei lavori sono importantissimi e nascono forse con lo stesso ritmo delle opere. In maniera anche veloce ma estremamente sentita. Spesso mi rifaccio a frasi che trovo in alcune canzoni, o in alcuni testi, spesso mi rifaccio a parole che mi ronzano in testa, spesso seguo il mio istinto e quello che emotivamente risuona più forte in me. Non vengono quasi mai i titoli a opera finita.
Raccontaci di SenzaBagno e OPENWORK…
Di SenzaBagno non so che dire. Ci tengo a ribadire che è uno spazio pensato solo come studio di un artista, non lo proclamo come project o run space. È il mio studio al quale è stato dato un nome facendo dell’ironia con amici. OPENWORK è nato da un mio bisogno, un’esperienza per la quale ho deciso di faticare e per la quale sentivo la necessità di fruirne (io prima di tutti). Nella laurea specialistica, discussa quasi due anni fa, ho affrontato in forma teorica le stesse domande che mi hanno portato a sperimentarmi in questa cosa. Sicuramente con OPENWORK questa mia domanda, questa ricerca si è espressa in un’altra forma, ha permesso di uscire allo scoperto, di dare voce alla scena pescarese. Il progetto ha permesso ad artisti e personalità del settore di vivere un tempo differente dal solito, dove in prima persona si ha modo di approfondire e vivere un medium e i processi di realizzazione di un’opera, concetti per me fondamentali. Come iniziativa sicuramente ha destato interesse, sia per la città, sia per un pubblico allargato e posso solo esserne felice e soddisfatto. Non so a oggi se e come continuare un qualsivoglia tipo di progetto all’interno del mio spazio di lavoro, ma è pur vero che sia stato utile per far rimettere gli occhi su luoghi distanti e periferici, dove in egual misura c’è del fermento e artisti che lavorano. Quindi mai dire mai…
Perché fare pittura oggi?
Perché ha un tempo diverso rispetto agli altri medium, perché penso sia un rapporto più intimo e diretto tra l’individuo creatore e la cosa creata. Siamo diventati troppo effimeri anche nell’arte, dobbiamo ridare valore al “tempo” e prendere coscienza che ci vuole tempo per fare arte.
Cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Boh.
‒ Damiano Gullì
http://simonecamerlengo.tumblr.com/
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