L’arte rotta (IV)
Proseguono le riflessioni di Christian Caliandro sul concetto di likeability rapportato all’arte. Stavolta a finire sotto la lente è Robert Morris.
Se c’è un esempio esplicito di anti-likeability, questo è Unavailable di Robert Morris, una dichiarazione del 2011 che riporta brevemente ed efficacemente l’“indisponibilità” dell’artista a sottostare a tutti i riti ‘sociali’ dell’arte contemporanea: “Contemporary art is making enough noise without me. I do not want to be filmed in my studio pretending to be working. I do not want to participate in staged conversations about art ‒ either mine or others past or present –which are labored and disguised performances. I do not want to be interviewed by curators, critics, art directors, theorists, aestheticians, aesthetes, professors, collectors, gallerists, culture mavens, journalists or art historians about my influences, favourite artists, despised artists, past artists, current artists, future artists. A long time ago I got in the habit, never since broken, of writing down things instead of speaking. It is possible that I was led into art making because talking and being in the presence of another person were not requirements. I do not want to be asked my reasons for not having worked in just one style, or reasons for any of the art that got made (the reason being that there are no reasons in art)” (qui la versione integrale).
IL RIFIUTO DELLA FINZIONE
Si tratta di frasi secche, eleganti in un modo molto personale e scostante, nelle quali il grande artista americano, scomparso nel novembre 2018, si rifiuta categoricamente di aderire alle convenzioni che regolano il sistema dell’arte attuale. Che – secondo i criteri della likeability – si appoggia in gran parte su una sorta di attorialità, sulla rappresentazione, sul ‘mettersi-in-posa’: “Non voglio essere filmato nel mio studio facendo finta di lavorare. Non voglio partecipare a conversazioni messe in scena sull’arte (…) che sono performance affaticate e camuffate”. Ciò che Unavailable rifiuta è proprio quella dimensione di finzione che è, secondo Morris, totalmente e radicalmente estranea all’arte, alla creazione dell’arte e dell’opera d’arte, e che in questa sua estraneità rappresenta anzi una concreta minaccia diretta a quel nucleo: “Molto tempo fa ho preso l’abitudine, mai interrotta da allora, di scrivere invece di parlare. È possibile che sia stato indotto a fare arte proprio dal fatto che parlare ed essere in presenza di un’altra persona non erano requisiti”. C’è stato dunque un tempo, non molto distante, in cui l’autorappresentazione, la recitazione, il mettersi in posa “non erano requisiti” fondamentali per fare arte; in cui invece il fare arte poteva prescinderne totalmente, e anzi essere scelto come dimensione esistenziale proprio per questo. C’è stato, lo sappiamo, ma tendiamo a dimenticarlo – come se le condizioni attuali fossero astoriche, atemporali.
Certo, si può anche accantonare questa dichiarazione come il capriccio di un autore famoso alla fine della sua carriera (‘sicuro, lui se lo poteva permettere ormai’), ma non credo proprio che sia così: penso invece che essa sia parte integrante di una poetica, che risponda a esigenze molto profonde e inerenti alla realizzazione dell’opera, e che punti l’attenzione su una questione fondamentale per l’arte di oggi (lo dimostrano peraltro i suoi ultimi, strepitosi lavori, esposti in questi mesi alla Galleria Nazionale di Roma, facilmente fraintesi ma che testimoniano la conclusione di una ricerca molto coerente e lucida): “Non voglio che mi si chiedano le ragioni per non aver lavorato in un unico stile, o le ragioni di qualunque arte abbia realizzato (dal momento che la ragione è che non ci sono ragioni in arte)”.
L’ARTE CONTEMPORANEA SI METTE IN POSA?
Bret Easton Ellis in Bianco, come abbiamo visto, rifletteva sullo stesso fenomeno da un altro punto di vista: “ciò che viene cancellato sono le contraddizioni che appartengono a ciascuno di noi”. Siamo sicuri che l’aver puntato così tanto sulle labored and disguised performances, sulle performance affaticate e camuffate descritte da Morris, abbia fatto bene all’opera, ai modi in cui viene vissuta, costruita, percepita e raccontata? La messa in scena, il mettersi in posa, la recitazione e la likeability sono davvero dimensioni ineludibili per l’arte contemporanea? Non è possibile che, a forza di fare-finta ed eliminando sistematicamente le contraddizioni, gran parte delle opere stesse siano diventate, senza volerlo, delle labored and disguised performances?
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
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