Trappole per lo sguardo. Un giovane artista in un nuovo spazio a Milano
State Of, Milano – fino al 13 febbraio 2020. Il nuovo spazio espositivo di Via Seneca presenta "Fame", personale di Edoardo Manzoni. Lo abbiamo intervistato.
La mostra Fame è presentata da State Of, nuovo spazio espositivo di Porta Romana ospitato negli ambienti di Aretè Showroom. È in un paesaggio fatto di abiti, infatti, che sono state posizionate le opere di Edoardo Manzoni (Crema, 1993). L’artista racconta della caccia, e quindi della complessa relazione tra uomo, animale e violenza, articolando un discorso complesso e privo di retorica, il genere di discorso scaturito da chi quel mondo l’ha vissuto fin da bambino. Nel parlarci di dinamiche di potere non sempre evidenti, Edoardo Manzoni usa delicatezza e fascinazione: la violenza non è mai rappresentata se non attraverso la sua sparizione o attraverso la seduzione di un frutto rosso, di un luccichio, di un atto di immaginazione.
Abbiamo intervistato Edoardo Manzoni per approfondire assieme a lui l’esposizione. Per approfondire le opere dell’artista, si terrà il 5 febbraio alle 18:30 la talk A come Animale, con Leonardo Caffo che parlerà del tema dell’animalità tra arte e filosofia.
Per prima cosa, vuoi raccontarci del perché il tema della caccia sia entrato nel tuo lavoro?
Tutto è iniziato dopo aver trovato vecchie stampe e dipinti di scene di caccia che appartenevano ai miei nonni. In quelle rappresentazioni bucoliche della pianura rivedevo i luoghi della mia infanzia. È nata in questo modo la serie Settembre, dove mostravo i dipinti di genere attraverso degli schermi installati su dei rami. Il mio interesse per la caccia nasce dunque come pretesto per riportare nel mio lavoro sensazioni e ricordi legati al paesaggio dove sono cresciuto. Con il tempo ciò si è sviluppato in una riflessione orientata sulla relazione tra la caccia e l’arte, due storie strettamente legate tra loro, se pensiamo che le prime testimonianze delle attività artistiche dell’uomo sono le scene di caccia rappresentate dai cacciatori primitivi.
In mostra sono presenti due stampe fotografiche su polistirene (Scena I, Scena II). Per realizzarle hai attinto dalla stessa fonte?
Sì, sono immagini che ho estrapolato da una serie di Enciclopedie del cacciatore di famiglia e con le quali ho iniziato a lavorare proprio per la cover di Artribune Magazine #40. Sono libri ricchi di immagini suggestive, dove la violenza dell’atto venatorio si sospende in un approccio naturalistico. Le fotografie sottolineano spesso la docilità delle prede selvatiche nel loro habitat naturale o il cane da caccia sempre fiero e in forma. Nelle scene di caccia, il cane è la rappresentazione ideale del cacciatore, è il suo alter ego, il suo strumento, la sua protesi: questo apre interessanti spunti di riflessione che si inseriscono nella mia ricerca sul rapporto tra l’uomo e l’animale. Le due immagini che ho selezionato per la mia personale mostrano gli atti che precedono e seguono l’uccisione della preda. Nella prima scena il cane punta, nella seconda raccoglie il leprotto colpito dal cacciatore. Sono intervenuto sulla stampa rimuovendo la figura del cane e lasciando inalterata la superficie occupata dalla preda e dal paesaggio. L’intento è quello di celare la violenza attraverso l’astrazione dell’immagine.
Lo spazio di State Of è disseminato di trappole: chi o cosa stai cercando di catturare? Si può dire che, in questo contesto, l’artista abbia assunto il ruolo di cacciatore?
Penso alla trappola come a una sintesi, un punto di incontro fra l’artista e il cacciatore. Da una parte abbiamo l’artista che, come un mago, installa trappole per l’occhio invitando il pubblico a lasciarsi sedurre e ingannare; dall’altra parte il cacciatore, che richiama l’animale invitandolo ad avvicinarsi per essere catturato nelle trappole che ha disposto nello spazio. Cerco di sfumare il confine tra scultura, ornamento e trappola giocando con l’ambiguità formale delle mie opere. Tra i lavori presenti in mostra da State Of quello che penso possa spiegare meglio il mio pensiero è Allodoliere, ovvero il famoso “specchio per le allodole”, il cui modo di dire deriva proprio da una trappola usata in passato per cacciare. Si trattava di un dispositivo rotante sul quale erano disposti una serie di specchietti che, riflettendo la luce, attiravano l’allodola nella rete preparata dal cacciatore. Ho ripreso la forma originale dello strumento, presentandola a metà tra una scultura e un seducente oggetto d’arredo.
In quella che considero l’opera conclusiva del percorso espositivo, un’installazione dove vediamo un fantoccio composto da rami d’albero indossare una pelliccia ed esibire una dentiera dorata (Senza Titolo (Trap)), parli della relazione tra sfoggio e potere, ma c’è anche un riferimento al mondo musicale. Vorresti approfondire?
È una sorta di cacciatore-sciamano che veglia sullo spazio, si nasconde ma allo stesso tempo si esibisce, è un essere che si camuffa da uomo o da animale. È l’opera che apre un dialogo diretto con lo showroom dove la mostra è ospitata e con la quale rifletto sul costume e l’ornamento usati come un implemento di difesa o attacco. La pelliccia fa riferimento al cacciatore primitivo che si veste della sua preda, mentre la dentiera d’oro (che in questo caso riprende una dentatura canina) è una protesi usata da secoli sia per motivi ornamentali che per scopo medico. Entrambi trovano oggi un riferimento nell’iconografia hip hop, dove lo sfarzo ridondante e pacchiano è usato per dimostrare la propria ambizione di potere e riscatto sociale. Diciamo che, oltre a questi viaggi spazio-temporali fra la preistoria e il presente, ci tenevo a omaggiare il mio genere musicale preferito.
– Laura Pfaiffer
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