Il futuro del museo Macro di Roma? Intervista al nuovo direttore Luca Lo Pinto
Luca Lo Pinto presenta a Roma il programma del suo Museo, dopo alcuni mesi di attesa dalla nomina. Si apre il 24 aprile, in un museo pensato come una rivista…
Il Macro entra in epoca Luca Lo Pinto, che succede a Giorgio De Finis nella conduzione del Museo romano. Nato a Roma, 38 anni, Lo Pinto ha lavorato fino alla nomina capitolina come curatore della Kunsthalle Wien (qui era in carica dal 2014), organizzando mostre di Liam Gillick, Pierre Bismuth, Charlemagne Palestine, tra gli altri. Co-fondatore di Nero, la casa editrice nata nel 2004, Lo Pinto è stato scelto alla guida del Macro attraverso un bando a evidenza pubblica, lanciato nell’estate 2019, con la proposta di un incarico triennale fino al 2022 (qui i criteri del bando). La nomina era stata invece comunicata nell’ottobre dello stesso anno, motivando la scelta con una preferenza rispetto al progetto presentato. Ecco come sarà.
Il tuo progetto rende omaggio all’Ufficio per l’Immaginazione Preventiva istituito a Roma nel 1973 da Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano e Franco Falasca con l’obbiettivo di produrre un’arte capace di agire sulla società. Su quali aspetti della società vorresti intervenire?
Il riferimento al progetto di Benveduti, Catalano e Falasca nasce dalla volontà di mettere l’immaginazione al centro del dispositivo museale. In un momento storico dove lo storytelling dell’arte è principalmente legato al mercato e al valore delle opere, la sfida è di lavorare più con le idee che con i soldi, visto che le risorse di cui dispongo sono limitate. Mi piaceva rendere omaggio nel titolo a un progetto che considerava l’immaginazione come motore propulsivo aldilà di una esplicita dimensione politica figlia di quel periodo storico.
In maniera differente, ma c’è una linea comune che attraversa la direzione di De Finis e arriva alla tua proposta. Che opinione hai dell’esperienza precedente del Macro Asilo? Cosa ti senti di salvare e cosa di criticare?
Sono due progetti che partono dalla stessa domanda ovvero quella di ripensare che cosa sia oggi il museo. Credo che Macro Asilo lo abbia fatto ponendosi in antitesi, contro il sistema dell’arte predominante. Museo per l’Immaginazione Preventiva non si pone contro il museo, al di fuori di esso, ma vuole provare a ripensarlo da dentro.
Non avendo vissuto a Roma negli ultimi sei anni, non ho avuto modo di seguire da vicino l’esperienza del Macro Asilo tuttavia l’idea di una macchina discorsiva incessante con un palinsesto quotidiano di incontri è molto interessante.
In che modo?
Personalmente l’aspetto che ritengo più critico è quello di scelte artistiche ed espositive che hanno sacrificato l’idea di selezione e di rigore. Non condivido poi il fatto di trasformare gli spazi in atelier che assomigliano a delle gabbie trasparenti e rischiano di riportare all’idea dell’artista come un oggetto esotico da osservare come un pesce in un acquario. In generale la concezione di un museo alternativo alla cultura ufficiale dove tutti possono esporre è stata portata avanti in modo ancora più radicale da diversi artisti. Un esempio su tutti è la celebre mostra The People’s Choice di Group Material che invitarono gli abitanti di un quartiere di New York a esporre dei loro oggetti personali. In generale mi colpisce come in Italia tutto si esaurisca in uno scontro tra posizioni predeterminate senza la curiosità e la voglia di confrontarsi se non in una forma conflittuale invece di dar vita a un dibattito costruttivo e intellettualmente onesto.
Due saranno i momenti chiave di questo primo anno di direzione: una mostra “prologo”, il 24 aprile, e il grand opening il 3 ottobre. Cosa accadrà in questi due differenti momenti? E perché non partire subito in quarta?
Stiamo partendo in quarta! E lavorando in tempi record. A un mese dall’insediamento presentiamo un progetto per il 2020, anzi per tre anni, poiché, rispetto a quanto avviene solitamente, qui la cornice è significante quanto il contenuto. Dopo una serie di lavori di disallesimento e restyling, il museo riaprirà il 24 aprile quando, aderendo all’idea del museo come rivista, la mostra inaugurale sarà concepita come un “editoriale” che abbraccerà l’intero museo – compresi gli spazi “interstiziali” e non funzionali – attivandolo con una serie di opere volte a offrire una riflessione sul ruolo e sull’identità dell’istituzione museale su un piano concettuale e architettonico, nonché ad anticipare ed evocare i linguaggi, gli immaginari e le posizioni artistiche che animeranno il futuro programma. Il 3 ottobre è la data dell’uscita del Museo per l’Immaginazione Preventiva in tutta la sua struttura “editoriale”.
In un recente articolo uscito su Artribune si rifletteva sulla totale chiusura in questi mesi del Macro. Come influisce questa scelta sul tuo lavoro? Pensi che sarà difficile recuperare pubblico e reputazione? Ci vorrà il doppio della fatica per riportare il museo nelle abitudini dei romani o, peggio, dei turisti.
Il museo è chiuso dal 1 gennaio e riapre il 24 aprile. Un arco temporale che comprende – oltre a un tempo fisiologico di disallestimento e riallestimento – una fase di chiusura funzionale al progetto per dei significativi lavori di restauro e restyling. Rispetto al discorso del pubblico, spero che un progetto che propone un modello di museo trasversale, che abbraccia generazioni e linguaggi diversi, fondato sulla gratuità possa essere apprezzato da un pubblico ugualmente eterogeneo. L’identità che abbiamo concepito si muove in tale direzione.
La collezione, argomento estremamente dibattuto nell’ambito del Macro Asilo di De Finis, torna qui ad essere oggetto di discussione. Come risolverai questo annoso problema?
Il MACRO ha in collezione 1200 opere. La prima domanda che mi sono posto è stata come sia stata creata, la seconda come affrontare il fatto che, eccetto il primo anno di apertura, non sia mai stata realmente accessibile. La intravedi dalla vetrata all’ingresso dell’ala vecchia, sei consapevole che esiste ma non puoi accedere negli spazi dove era pensata per essere fruita. Questa “bipolarità” mi ha fatto riflettere in generale sullo status delle collezioni pubbliche. Gran parte dei lavori sono chiusi in magazzini non accessibili al pubblico e, nonostante le varie rotazioni, la fruizione che ne abbiamo è principalmente mediata sotto forma di immagini. Oggi fruiamo le mostre sugli schermi, le opere sono vendute sui tablets, i musei digitalizzano i loro archivi: viviamo nel museo immaginario pensato da André Malraux. A partire da queste osservazioni, ho commissionato a Giovanna Silva di fotografare le opere della collezione del MACRO e dei depositi chiusi al pubblico in cui sono collocate. Le fotografie saranno esposte sotto forma di un gigantesco wallpaper che fungerà da display per le opere di una collezione in progress dedicata ad artisti italiani delle nuove generazioni che sarà costantemente “aggiornata” con l’aggiunta di nuovi lavori e interventi.
L’architettura di Odile Decq offrirà l’occasione per destrutturare il progetto in “rubriche” come le definisci tu. In questa dimensione come credi sarà il Macro del futuro, un Museo o uno spazio per l’arte? Hai spezzettato la programmazione perché ci credevi davvero al 100% o magari anche per rispondere ad uno spazio difficilissimo?
L’idea del museo come magazine mi è venuta in mente in risposta alla specificità della architettura del MACRO (un corpo bicefalo articolato in 10.000 metri quadri), alla gratuità e soprattutto per rispondere alla domanda: come posso ripensare un museo oggi?
Il MACRO ha una storia travagliata di vent’anni, ne sono passati dieci da quando è stata inaugurata l’ala nuova. Non credo sia una coincidenza il fatto che nel 2020 mi sia concessa l’idea di presentare un progetto così sperimentale nel formato. Avere tre anni a disposizione può apparire come un limite ma dipende sempre dai punti di vista. Se lo si pensa come un museo in senso classico è pochissimo, se lo pensiamo come una mostra ha una durata inusuale. Il museo per come l’abbiamo considerato fino a oggi è una festa in smoking, io preferisco immaginarlo metaforicamente come un club dove andare a ballare. Ovviamente ciò che alla fine conta non è solo la cornice ma quello che produci dentro e come lo produci.
Ci fai qualche nome nel programma delle mostre monografiche?
Mi piacerebbe che in questo ripensamento del museo fosse coinvolto tutto, anche la comunicazione. Mettere al centro gli artisti non necessariamente significa anticipare una lista di nomi. Così come una mostra personale, collocata in uno degli spazi principali del museo, non necessariamente deve collocarsi su un piano più importante di quello che accade in un’altra sezione.
Questa articolazione “editoriale” del museo in stanze-rubriche venne sperimentata già da Sergio Risaliti ai tempi delle Papesse con l’idea, che tu qui riproponi, di museo come rivista. Hai preso ispirazione da lì o altrove? O magari ti sei rifatto alla tua esperienza di editore e fondatore di riviste vere e proprie?
Non mi sono ispirato a precedenti particolari, forse mi appartiene coma forma mentis. Come dicevo è una risposta a come ripensare i paradigmi del museo, della mostra e dell’opera traducendo tutto questo in una forma accessibile ad un pubblico ampio. Il magazine offre una struttura rigida che produce un movimento costante. Nei musei tutto è permesso tranne l’improvvisazione, così spesso la mostra finisce per essere una natura morta, identica dall’inizio alla fine.
Di recente sei stato curatore alla Kunsthalle Wien. Cosa ti porti a Roma di quella esperienza?
La possibilità di operare in modo costante all’interno di un contesto istituzionale con tutti i vantaggi e limiti che esso comporta. In generale sono contento di aver potuto portare avanti una riflessione sulla mostra come medium e di esplorarne le potenzialità sotto vari aspetti. Se lì la suggestione era di insistere sull’idea di mostra come opera, qui è il museo a farsi mostra.
Cosa ti piace di più e cosa ti spaventa di più di Roma?
È una città con un grande potenziale dove la sottocultura da sempre è più vivace e immaginativa del panorama istituzionale. È una città viscerale, emotiva che ti può amare follemente e dimenticare il giorno dopo. Al tempo stesso soffre di un certo provincialismo e qualunquismo molto italiano. La sfida più grande è che questo programma di contenuti così articolato e complesso – una mostra di mostre, in fondo – possa intercettare un pubblico il più possibile diverso, soprattutto chi in un museo non ci ha mai messo piede o non si è mai sentito realmente spinto a visitarlo.
Starai pensando al tuo staff. Chi ti porti a bordo? Chi ti darà una mano in questo compito complicato?
Ho voglia di creare un gruppo di lavoro giovane, veloce, professionale, con l’energia e la curiosità necessarie per imbarcarsi in un’impresa fitzcarraldiana. Mi piace pensarlo come un team editoriale che funziona per vasi comunicanti e in una forma più orizzontale rispetto a quanto accade solitamente nei musei. Il team completo sarà presentato ad aprile in occasione del progetto inaugurale.
La dotazione finanziaria del Museo a quanto ammonta per le mostre? La somma ti soddisfa? Cercherai di aumentarla e come?
Il contratto di servizio del Comune con l’Azienda Palaexpo, da cui dipende il nostro budget, è in via di formalizzazione, la cifra disponibile per le attività dovrebbe aggirarsi attorno ai 700.000 euro. Le risorse non sono molte e la sfida è proporre un museo sperimentale che produca contenuti e che possa espanderli in collaborazione con aziende, privati, bandi, finanziamenti.
Il tuo mandato parte, di fatto, ad ottobre del 2020 e finisce nel 2022. Ma non è un po’ poco questo intervallo? Quale è la logica di un incarico così breve?
La durata dell’incarico ovviamente non dipende da me. Tuttavia l’idea di trasformare il museo in una mostra è nata per far in modo che un limite potesse diventare un vantaggio. Un progetto espositivo di tre anni è considerato lungo. L’intera impostazione di un museo in costante aggiornamento è possibile poiché il MACRO è un museo gratuito, dove il pubblico è incentivato a tornare e a viverlo senza dover pagare un biglietto.
–Santa Nastro
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