La ballata dei luoghi dimenticati: l’installazione di Botto&Bruno a Torino
Entrata nella collezione di arte contemporanea dei Musei Reali di Torino, l’installazione di Botto&Bruno intitolata “The ballad of forgotten places” ed esposta nella Galleria Sabauda, analizza il legame inscindibile fra centro e periferia.
The ballad of forgotten places è il progetto realizzato dagli artisti Botto&Bruno (Gianfranco Botto e Roberta Bruno), promosso dalla Fondazione Merz, vincitore della terza edizione del concorso Italian Council (2018), ideato dalla Direzione Generale Creatività contemporanea e Rigenerazione urbana del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo. Il progetto è stato realizzato in stretta collaborazione con il Segretariato regionale per il Piemonte del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, che ha individuato nella Galleria Sabauda la destinazione finale dell’opera, raggiungendo l’obiettivo di annettere l’installazione alla collezione di arte contemporanea dei Musei Reali a partire dal 20 febbraio scorso.
L’opera di Botto&Bruno vive di una metrica leggera, pur nella gravità della sua materia. Allestita al primo piano della Galleria Sabauda, nella neobarocca Sala degli Stucchi, l’installazione risponde all’imponenza dello spazio espositivo rappresentando la stratificazione di case, palazzi e fabbriche della periferia torinese. Il controcanto non è, però, dissonante: i luoghi suburbani e marginali della città vengono restituiti come un delicato collage di riferimenti universali; un’architettura costituita da trame pittoriche con cui i singoli elementi sono stati amalgamati:
PAROLA A BOTTO&BRUNO
“’The ballad of forgotten places’ parla di luoghi dimenticati, feriti, oltraggiati. È da tempo che riflettevamo sul concetto di rovina contemporanea. Per realizzare questa installazione siamo andati nel nostro archivio e abbiamo iniziato a scegliere architetture industriali moderniste e paesaggi ai margini della città che sapevamo essere spariti o modificati nella loro identità. Al centro dell’installazione un libro che raccoglie 150 immagini di paesaggi periferici essi stessi fragili, abbandonati. Tutte le immagini dell’installazione e del libro sono state trattate pittoricamente con acquerellature di spirito turneriano, in modo da creare una patina del tempo, quasi una sorta di dagherrotipo”, spiegano gli artisti.
L’alterazione delle forme urbane, sopraffatte da una natura vivida e “ottocentesca”, racconta la necessità di preservare la memoria delle periferie, di storicizzarle – intendendole quali spazi reali, portatori della cultura popolare; ma anche concepite quali proiezioni utopiche. Il collante fra la trasognata reminiscenza di questi luoghi fragili e trascurati e l’osservatore che acquisisce la responsabilità di trasmettere tale memoria è il libro, posto al centro della costruzione. Sono gli stessi Botto&Bruno ad affermare: “Il libro, per lo spettatore, diventa come una sorta di viaggio; le immagini iniziali sono ancora nitide e riconoscibili ma man mano che si sfogliano le pagine ci si rende conto che le macchie cambiano colore e si scuriscono, andando a far sparire quasi completamente il paesaggio. L’idea era quella di costruire una rovina che, quasi come una sorta di abbraccio, proteggesse la memoria di questi luoghi custodita nel libro”.
DALLA PERIFERIA AL CENTRO
La composizione di The ballad of forgotten places è immediatamente familiare – pur non vivendo in periferia. Ricorda non solo Turner e la pittura paesaggistica romantica, ma ci avvicina a quell’idea di infinito leopardiano, risultanza immaginaria della mente, che oltre la siepe prefigura interminati spazi. Ma qui la siepe sembra essersi presa ogni centimetro disponibile, in un gioco di scatole cinesi in cui riempie tutti i piani dello spazio, ammantando la visuale. Come dire: i meandri dell’anima vogliono protendere verso l’immensità, pur non conoscendo altro che il proprio panorama. Ecco perché, per i due artisti, il ruolo dell’arte non è solo la narrazione della società, ma è anche ampliare l’orizzonte e proteggere la storia dei luoghi grazie alla rivalutazione estetica del presente.
“Le nostre installazioni chiedono alle persone di entrare e di sostarvi in modo che prendano confidenza con quei paesaggi a loro sconosciuti. Nella rovina regna il silenzio, un silenzio creato dal potere meditativo di questi luoghi. I luoghi raccontati hanno bisogno di essere amati per essere salvati. È necessario non associare solo il degrado a questi spazi ma imparare a conoscerli nella loro natura più profonda. Cercare di donare nuovi sguardi crediamo sia l’unico modo per iniziare a comprenderli e capire di che cosa hanno in realtà bisogno. Se il paesaggio ai ‘bordi’ si ammala, si ammalerà prima o poi anche il centro; è quindi interesse di tutti prendersi carico di questi luoghi e iniziare a curarli”.
‒ Federica Maria Giallombardo
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