L’arte “differente” di Esther Kläs alla Fondazione Giuliani di Roma
In mostra alla Fondazione Giuliani di Roma, Esther Kläs esplora un nuovo punto di vista, escogitando un altro modo per dire che “tutto scorre” e “tutto si trasforma”. Basta solo predisporre la possibilità che “forse può essere diverso”.
C’è chi la accosta al Minimalismo o ad alcune pratiche legate all’Arte Povera, ma Esther Kläs (Magonza, 1981), aperta a qualsiasi tipo di classificazione, chiarisce ‒ durante la nostra intervista ‒ che l’origine delle sue intuizioni non può essere soggetta a una limitazione: “Qualsiasi cosa può essere una fonte di ispirazione. Non c’è un limite perché l’ispirazione è qualcosa di molto ampio”.
L’artista espone una varietà di opere tra cui sculture, ceramiche, dipinti su carta, un arazzo in lana e un film. Una scultura dalla forma lunga e assottigliata esposta nella prima sala sembra voler indicare la direzione, mentre taglia in orizzontale le pareti della Fondazione Giuliani stabilendo una continuità tra le opere, disposte prima dal basso verso l’alto, poi dall’alto verso il basso. Il complesso di sculture collocate nello spazio genera stati percettivi che oscillano tra stasi e movimento, mentre le opere su carta suggeriscono ulteriori possibilità compositive.
Maybe it can be different è il titolo della tua prima personale a Roma. Che cosa “forse può essere diverso”?
Tutto può essere diverso, sempre. Le cose possono essere in un modo o in un altro. Partendo da questa possibilità, creo un movimento innescando una serie di interrogativi: che cosa? Come? In realtà non c’è una risposta, però è proprio questo movimento che mi interessa, il fatto che non esista qualcosa di “fisso”.
Sperimentazione di materiali, gestualità e movimento caratterizzano il tuo lavoro. Questo è quanto emerge dall’osservazione delle tue opere in mostra. Puoi raccontarci di più?
Non è una ricerca prettamente legata ai materiali. Individuo il materiale in base a ciò che rappresenta la migliore soluzione per realizzare la mia opera. Quindi in realtà c’è una ragione di ordine pratico: scelgo il modo migliore per dire quello che voglio dire.
Si può dire che la tua ricerca si collochi tra Minimalismo e Arte Povera?
Se qualcuno pensa di classificare la mia arte in questo modo, per me va bene. Ma per me non è così, diciamo che non mi muove questo pensiero. Questo è quello che faccio, poi se altri lo vedono sotto questo punto di vista, per me va bene. Traggo ispirazione da tantissime cose diverse, qualsiasi cosa può essere una fonte di ispirazione. Non c’è un limite perché l’ispirazione è qualcosa di molto ampio.
Nelle tue esposizioni c’è sempre un’interrelazione tra forma, spazio e movimento. Disponi le opere in modo che creino delle precise relazioni. Cosa cerchi di preciso?
Tensione. Ad esempio, quando ho lavorato sulla scultura più alta, non sapevo esattamente dove l’avrei posizionata, ma sapevo cosa stavo cercando: la tensione, che è esattamente un rapporto tra le cose. Dunque tutta l’esposizione mostra questo rapporto tra le opere. Ogni opera è collegata all’altra, senza essere la stessa.
Vuoi raccontarci qualcosa in particolare sulle opere che hai realizzato in occasione di questa mostra alla Fondazione Giuliani?
Non voglio dire qualcosa di specifico, il mio lavoro non è qualcosa che voglio raccontare con le parole. A volte mi chiedono: “che cosa hai cercato di fare? Cosa significa?” Io penso solo che sia quello che è, dunque guardandosi intorno è tutto già chiaro. È molto importante per me dare spazio all’opera in modo che la si possa guardare. Non c’è un altro linguaggio che può dire quello che è. Non c’è niente da insegnare o da raccontare.
‒ Donatella Giordano
interprete: Alessandra Rantucci
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