Qualcos’altro. Mario Schifano in mostra a Milano
Galleria Giò Marconi, Milano – fino al 20 marzo 2020. Estremo. Bello e dannato. Non smetteva mai di avere fede in ciò che faceva. Generoso e capriccioso. Dissipatore di talento? Neanche per idea. Edoardo Nesi scrive che “lo spreco è vita, pura vita… che è dallo spreco totale della vita di ogni artista che nascono i capolavori”. Quelli di Schifano sono nati nel 1960-62.
Era sopra le righe come le traiettorie impazienti della sua pittura, veloce e vorace come una macchina del desiderio. Negli Anni Sessanta Mario Schifano (Homs, 1934 – Roma, 1998), già prima di andare negli Stati Uniti, aveva scaraventato ogni pensiero di pittura figurativa o informale nella vernice grondante, asfissiandola dentro a uno schermo cieco, smussato, a tratti sospeso. Allo stesso modo, negli stessi anni, aveva iniziato a sabotare sé stesso, consumando sostanze. Nella vita quotidiana si faceva amare (e sopportare): aveva frequentazioni speciali ‒l’ambiente artistico che ruotava intorno al Caffè Rosati in Piazza del Popolo, tanta intellighenzia romana e non, tutto il jet-set, donne belle, ricche e famose ‒ alternate a sparizioni paradossali. Ne notò il talento per primo Emilio Villa, poi il gallerista de La Tartaruga, Plinio De Martiis, e il critico Maurizio Calvesi. A ruota Cesare Vivaldi e Arturo Carlo Quintavalle, che nel 1974 curò la prima retrospettiva storica dell’artista nel Salone delle Scuderie in Pilotta a Parma. Sempre dello stesso anno fu un’importante mostra allo Studio Marconi di Milano.
LA STORIA DI MARIO SCHIFANO
Schifano abitava e voleva abitare nel centro di Roma, città aperta e cosmopolita, prima accanto a Rotella, Moravia ed Elsa Morante, poi accanto a Giuseppe Uncini, a Piazza Scanderbeg. Dai vicoli la sua pittura arrivò subito a Ileana Sonnabend, con cui ebbe un rapporto professionale tanto breve quanto tormentato e “mai” esclusivo.
Risalgono a questa collaborazione, datata primi Anni Sessanta, i disegni e il nucleo di monocromi ora in mostra a Milano; opere a cui Schifano dedicava titoli bellissimi, come Vero Amore (Numerato, Spezzato, Incompleto). True Love Number One è uno schizzo esposto da Giò Marconi: “Era il nome della cameriera di Leo Castelli e Ileana Sonnabend. Era una setta religiosa che le aveva dato questo nome: vero amore numero uno. Poi ci sarebbe stato vero amore numero due, ecc… dato che era la prima nata della famiglia, era il numero uno”.
Nello spazio centrale della galleria milanese l’appuntamento col Vero non è contemplato, ma il colore-barattolo acceca nei monocromi puri. Achille Bonito Oliva scrive di lui: “La tattica perseguita è quella dell’azzeramento della dimensione spaziale alla semplice superficie bidimensionale del quadro, della sua riduzione a corpo liscio e speculare che accoglie ed espelle nello stesso tempo la sostanza pittorica. L’unica materia, infatti, è il colore, perché lo spazio è puro supporto e occasione per l’estensione del colore”.
LA FORZA DELLE IDEE
L’intento dell’artista era mettere a fuoco il dispositivo che congela uno sguardo uniforme, uno zero pittorico “con dentro niente”. Il suo primo riferimento fu quello dei cartelloni pubblicitari romani. A seguire furono i billboard e le affissioni stradali che avevano accolto Schifano e Anita Pallenberg nella Grande Mela. Arrivarono insieme a New York City il 3 dicembre 1963. Videro grandi manifesti neri, di rimbalzo da Dallas a NYC, che incupivano con campiture nette e slogan a caratteri cubitali le street deserte: la gente non c’era perché era catalizzata dagli schermi televisivi dove scorreva ininterrottamente “JFK IS DEAD”. Lo stesso era successo dopo l’assassinio di Medgar Evers, pochi mesi prima. Schifano osservava, raccoglieva e ripeteva: “Le idee ti capitano addosso all’improvviso. Se però non lavori non vengono. Certe immagini sono così complesse che, se non riesci ad affrontarle, fatalmente le perdi”.
Mario Schifano non si tirava mai indietro. Alberto Salvadori, curatore della mostra, scrive che Qualcos’altro ‒ monocromo grigio-azzurro del 1962 che dà il titolo alla mostra milanese ‒ ha un sapore quasi profetico. L’artista utilizzò in altre occasioni l’espressione Qualcos’altro o Something Else… Ed era risoluto quando dichiarava: “Questo è il mio quadro, non so se frattura con il gusto corrente, per me, comunque, qualcos’altro”. Succedeva pochi anni prima di mettere mano ai flussi dei display, della macchina fotografica, del cinema, de Le Stelle.
‒ Federica Bianconi
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