L’arte ai tempi della quarantena. Intervista a Marcello Maloberti, Profeta di Provincia
L’arte della provincia vs globalizzazione; le notizie dalle zone focolaio; le sue t-shirt in vendita a sostegno per Casalpusterlengo; il significato di un’opera che si sedimenta rivelandosi a distanza di tempo. Maloberti si racconta a Artribune e riflette su ciò che assume un diverso valore alla luce di ciò che stiamo vivendo.
Marcello Maloberti (1966, Codogno) è un noto artista italiano che negli anni ha esposto al MAXXI di Roma, al Pecci di Prato, a Manifesta12 a Palermo, alla Quadriennale di Roma, al Castello di Rimini, alla GAMeC di Bergamo e alla Galleria Raffaella Cortese di Milano, giusto per citare alcuni punti di riferimento del sistema dell’arte italiana. Anche lui in quarantena come tutti quanti, ha deciso di raccontare la propria esperienza e le proprie riflessioni legate all’attualità in questo dialogo su Artribune. Le motivazioni sono diverse: nato a Codogno e cresciuto a Casalpusterlengo, Maloberti conserva un legame solido con quelle province che fino a ieri erano sconosciute ai più e oggi sono sulla bocca di tutti, tristemente note come focolai epidemici. Ci riporta le notizie dei propri affetti, di chi è tutt’ora immerso in una quarantena diventata ormai lunghissima. Ma soprattutto, ci confida che questo cambiamento repentino della realtà è diventato anche una lente attraverso cui rileggere la propria opera: infatti, mentre tutto il mondo dell’arte celebrava la globalizzazione e il cosmopolitismo, Maloberti – fin dai primi anni Duemila – si aggrappava con enfasi e disperazione al cartello stradale di Casalpusterlengo, oppure inscenava una performance con tanti bambini che trasportavano una chilometrica bandiera italiana. Abitare la provincia non vuol dire essere provinciali: ma valorizzare ciò che si trova dietro l’angolo, accorgersi e perdersi nelle piccole cose, ha un portato che in un momento come quello di oggi, nel quale tutti gli Stati sono tutti asserragliati dentro confini invisibili, si rivela in tutta la sua chiarezza.
Dove ti trovi attualmente?
Sono nella mia tana. Da tanti anni ormai vivo a Milano nella mia casa, con lo studio in zona Porta Romana. Sto lavorando a tanti progetti a distanza, come fanno tutti in questo momento. Mi piace molto lavorare in casa. Avere uno studio è come andare a lavorare, invece l’arte è come un respiro continuo.
Come stai affrontando questa quarantena?
Faccio tanta ginnastica e sto diventando un cuoco. Non sono capace di cucinare, mangiavo sempre fuori, ora invece provo a cimentarmi facendo disastri incredibili. Mi manca tanto il caffè del bar e i profumi del mondo. Fuori sembra una città vuota di Giorgio De Chirico. Inoltre, mi sto, per così dire, tirando la mazza sui piedi da solo perché continuo a ordinare e leggere libri di Franz Kafka, ma quando arrivano è comunque la mia più grande festa. Ora sto leggendo i suoi diari. Proprio ora mentre scrivo mi è caduto l’occhio su questa sua frase, “scusa, babbo, lascia dormire il futuro come merita. Se, infatti, lo si sveglia prima del tempo si ottiene un presente assonnato”.
A cosa ti fa pensare?
Questo momento distruttivo genera vuoto, ma anche un nuovo spazio per il possibile. Spero che il mondo ritorni, ma più bello. Sono consapevole della gravità degli effetti che questa crisi economica avrà, ma d’altra parte spero possa servire a una crescita spirituale.
Sei nato a Codogno e cresciuto a Casalpusterlengo. Quali sono le notizie che ti arrivano da là?
Bisogna pensare che quando tutto questo è iniziato erano gli unici a viverlo, e che a livello psicologico è stato forte. È da più di un mese che sono in quarantena. Io là non ho più la mia famiglia, solo degli amici. All’inizio non ci credevano, la loro vita si è ribaltata, è stato surreale.
Come stanno le persone? Da quando è iniziata l’epidemia a oggi ci sono stati dei cambiamenti, anche nel modo di vivere la situazione?
La situazione ora è migliorata. Dobbiamo tenere presente che il virus in Italia è stato individuato per la prima volta a Codogno, che ha allarmato la popolazione italiana e mondiale sul coronavirus: grazie alla dottoressa e al primo paziente è infatti scattata l’allerta generale. Un ritardo nella diagnosi avrebbe portato ad una diffusione ancora maggiore di quella attuale.
Senti ancora un legame forte con questo luogo?
Sono molto legato al mio paese. Pasolini nel libro La Divina Mimesis diceva che il sapere ha una FORMA. Le prime cose che vedi, che studi, le tue prime esperienze di vita, sono quelle che ti condizionano in tutto ciò che viene dopo. Per quanto tu possa continuare a studiare, a fare esperienze a vedere… tutto questo sarà solo un’aggiunta a quello che ha formato prima la struttura del tuo DNA. Questo lo dico pensando alla differenza che fa l’essere nato in provincia. Per il fatto di non aver niente, né il mare, né la montagna, né la città, l’immaginazione va a mille. La pianura è un orizzonte calmo.
Qual è la tua visione sulla periferica Casalpusterlengo?
Ho sempre pensato che a Casalpusterlengo ci sia un po’ di follia felliniana, seppur senza cadere nell’eccesso. Lì ogni cosa è sacra. Quando è tutto piccolo, anche il panettiere diventa mitico, il passaparola è così veloce che tutto viene mitizzato. Io sono nato a Codogno, ma ho sempre vissuto a Casale. Non mi avete mai creduto quando vi dicevo che Casalpusterlengo è una bomba.
Ancora a proposito di questa emergenza. Vuoi raccontarci la tua esperienza o i tuoi pensieri a riguardo?
È una grande distruzione, ma spero che serva come rigenerazione spirituale, anche se ho molti dubbi. Ognuno di noi guarderà dentro e fuori di sé in modo più mistico. Così è per me, lo dico sempre che il mio lavoro nasce da uno spavento. Questa situazione mi ha anche fatto pensare a quanto tutte le anime siano connesse le une alle altre.
Dicci qualcos’altro.
Sto pensando che “per trovare il tuo passo, devi uscire dal tuo passo”, è una frase del mistico San Giovanni della Croce. L’uomo si è messo al posto della divinità, ma è solo un tramite verso qualcos’altro. Il virus è una guerra invisibile che fa addormentare. Forse in questo periodo in cui ognuno ha più tempo a disposizione, ciò che facciamo è recuperare il nostro passato. Pensiamo che l’arte si comprenda immediatamente, diamo subito giudizi, invece necessita di tempo perché venga capita fino in fondo. L’arte non è fatta per l’oggi, è fatta per il passato e per il futuro. Ennio Flaiano, citato da Giorgio Agamben dice: “io faccio i miei progetti per il passato”. Mi chiedo cosa penserebbe di questo momento il mitico Carmelo Bene…
Sei stato allievo di Luciano Fabro e da sempre hai lavorato su una sfera “provinciale”, andando a indagare piccole realtà. Ci puoi spiegare qualcosa in merito a questa direzione?
Fabro è stato per me il Maestro, è stato come fare un secondo servizio militare. Ti metteva sempre alla prova, se non avevi carattere era impossibile, ma penso che in tutti i lavori il carattere sia la cosa più importante. Penso all’immagine di mia nonna nascosta sotto il tavolo: è come se le gambe del tavolo fossero le colonne di una casa. È come se tutte le persone nel mondo stessero giocando a nascondino in questo momento. In molti mi chiedono di lei, come sta, me lei non c’è più da molto tempo. C’è un’umanità che è eterna, è come se il tempo non passasse su questa immagine.
Al contrario, la figura dell’artista “internazionale”, che viaggia nelle grandi capitali muovendosi da un polo all’altro del mondo, è stata molto di tendenza. Almeno fino al momento in cui questa situazione ci ha indotto a ripensare il nostro stile di vita.
La globalizzazione brutalizza esteticamente. Le cose più vicino a noi sono quelle più misteriose, non bisogna cercare lontano, e più le guardi da vicino più diventano estranianti, lo sappiamo bene da Giorgio De Chirico. Il mio lavoro oggi può essere letto sotto altre sfumature che forse prima a tanti sfuggivano, perché l’importante non è l’essere o meno in provincia, ma non essere provinciali. Il nostro essere esterofili ci rende, invece, paradossalmente più provinciali.
Puoi spiegarci meglio questa posizione?
Casalpusterlengo non ha il fascino dell’esotico come lo hanno altri luoghi. In Italia basta venire dall’estero per averlo, e quando dicevo da dove venivo la gente rideva. La provincia, la marginalità, la tradizione, non avevano valore, mentre ora si. Non a caso ho portato a Milano in Triennale il cartello di Casalpusterlengo, chiedendo al sindaco di farmi avere proprio quello su cui mi ero appeso nel 2006, dove sembro un angelo caduto dall’alto o crocifisso sul nome del mio paese.
Effettivamente quell’opera, che risale già a 14 anni fa, segnava un importante capovolgimento rispetto a ciò a cui il sistema dell’arte dava valore…
Se penso al titolo del mio lavoro K A S A L P U S T E R L E N G O… mi piace tantissimo, è una parola così astratta che sembra un orizzonte alfabetico. Assume come la valenza di una formula magica. Dobbiamo guardare alla nostra tradizione, alla nostra storia dell’arte. In fondo tutto il mondo è provincia, non c’è un centro. Ogni persona ha il suo centro del mondo. Penso a Marchionne quando diceva che “a volte dovremmo vergognarci meno, molto meno, di essere italiani”.
Hai giustamente detto che l’opera assume significato con il passare del tempo. In questa situazione di emergenza e quarantena avrai avuto modo di accorgerti come lavori anche di tanti anni fa abbiano assunto una sfumatura diversa alla luce dei fatti attuali. Ci puoi raccontare a quali opere ti riferisci?
Penso a tutti i miei primi lavori legati alla provincia e all’italianità. Al mio lavoro con la bandiera italiana in modo molto ironico legata alla tovaglia a quadretti rossa, come se fosse un drago di un carnevale cinese. Gilles Deleuze diceva che ognuno di noi deve inventarsi il proprio dialetto, bisogna balbettare con il linguaggio.
Un assunto che hai fatto tuo, attraverso la ricerca artistica.
Nei miei lavori sento un forte senso di italianità e di umanità assieme, che in questo momento ci serve perché ci da calore e comunità. È l’importanza dello scoprire l’altro, trovare un sé collettivo e perdersi nell’altro. Perdo me e trovo te. È quello che faccio nel mio lavoro e nelle mie performance: il pubblico è il mio corpo. Penso anche a un lavoro più recente (Ma l’amor mio non muore) fatto l’anno scorso a Torino durante Artissima con Ilaria Bonacossa, che parla di frammento e di distruzione. Mi fa sorridere quell’arte di oggi legata alla forma e alla misura nel momento in cui queste sono solo un miraggio. Il divenire della vita è un frammento, una rovina e una continua autodistruzione. Pensiamo tutti al testo di Walter Benjamin Carattere distruttivo. È difficile parlare della verità perché sebbene ce ne sia una sola, il vivente ha un volto che cambia con la vita.
Senti di avere avuto un ruolo profetico, in un certo senso?
Non posso dirlo io, ma in tanti mi dicono che sono profetico: ora Casalpusterlengo è famoso in tutto il mondo! E le immagini dei miei lavori diventano un po’ iconiche per questo momento. L’arte non è religiosa, è profetica. Mi piace molto “sporcarmi” con la realtà e sporcarmi col divino. E noi giochiamo con l’arte con molta facilità… ma è il tempo ciò che infine da ragione alle cose. Penso che l’arte migliore, quella che resta, sia sempre stata profetica.
Raccontaci del progetto delle t-shirt da te firmate. C’è una finalità benefica nella loro vendita?
Sono stato invitato dal mio amico Paolo Zucchi per il progetto #unamagliettapercasale, un’iniziativa privata per raccogliere fondi che sono stati destinati all’acquisto di mascherine chirurgiche per i cittadini e tute, visiere e dispositivi di protezione per gli infermieri che si stanno occupando dei malati a casa. Ed è già sold out.
Ancora una volta lavori per e con le tue origini, il luogo che ti ha plasmato.
Sono legato a Casalpusterlengo, ma anche sempre in viaggio a guardare le contraddizioni del mondo; per me è un fuggire e un tornare. La grandezza del cuore disegnato sulla maglietta dipende dall’orizzonte di questa parola che mi ossessiona. Volevo che questo grande cuore fosse qualcosa di forte che potesse arrivare a tutti. È importante pensare poeticamente il mondo, riacquistare spensieratezza. Per me l’arte è un momento di estasi e di evasione. Chissà come risponderà l’arte a tutto questo.
Come ti piacerebbe concludere questa intervista?
-Giulia Ronchi
http://www.marcellomaloberti.com/
https://www.instagram.com/martellate_project_/
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